Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 26/10/2013, 26 ottobre 2013
IMPUTATO E PARTI CIVILI OSTAGGI DEL PROCESSO CHE È ARRIVATO AL NONO GRADO DI GIUDIZIO
Condanna in tribunale a 15 anni nel 2004, condanna anche in Appello nel 2006, sentenza annullata in Cassazione nel 2007, assoluzione nell’Appello-bis nel 2008, nuovo annullamento nella Cassazione-bis nel 2009, assoluzione nell’Appello-tris nel 2011, ancora annullamento nella Cassazione-tris nel 2012, condanna a 13 anni nell’Appello-quater nel 2013, e adesso si aspetta il quarto passaggio in Cassazione a carico di un inserviente d’asilo bresciano per contestate violenze sessuali nel 2001 su quattro bambini. Sarà il nono grado di giudizio tra Brescia e Milano. Più dei sette per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi. Più degli otto per la strage di Piazza Fontana.
Al punto che, tralasciando il merito intricato di una vicenda delicatissima che a quasi 12 anni dai fatti afferra ancora non solo l’imputato ma anche le parti civili dei bimbi e delle loro famiglie, la difesa ora sperimenta due questioni più generali: una sulla tenuta della regola della condanna solo se «oltre ogni ragionevole dubbio», e l’altra sull’apparente impossibilità di prospettare alla giustizia europea una eventuale durata irragionevole del processo italiano se prima il processo stesso, in un gioco di rimbalzi di annullamenti e controannullamenti, non finisce mai perché mai diventano definitive o l’assoluzione o la condanna.
Sul primo versante il professore Guglielmo Gulotta, specie dopo l’archiviazione di tre iniziali coindagati nella scuola e l’assoluzione di altre tre coimputate, pone a raffronto la peculiare sequenza di altalenanti decisioni con il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura, in base al quale il giudice è obbligato a pronunciare sentenza di assoluzione non solo quando «manca la prova» che il fatto sussiste, ma anche quando questa prova è «insufficiente o contraddittoria»: e allora, nella prospettiva della difesa, già questa «massa eterogenea di decisioni tra loro diametralmente opposte», con differenti principi di valutazione della prova additati perfino dalla stessa sezione di Cassazione in due diversi giudizi (ovviamente con giudici diversi) a proposito del possibile «contagio dichiarativo» tra bimbi o fra bimbi e genitori, sarebbe dimostrazione del fatto che una eventuale nuova condanna non potrebbe superare la soglia dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» disegnata nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità.
La seconda questione appare più concreta e verte sul principio della «ragionevole durata» del processo, sancita dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e incorporata dall’articolo 111 della Costituzione italiana. Un numero secco per stabilire quanti anni sia «ragionevole» che duri un processo non esiste e nemmeno potrebbe esistere, dipendendo dalla combinazione di una pluralità di fattori come la complessità del caso, il comportamento dell’imputato, la condotta delle varie autorità giudiziarie. E un imputato può dolersi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo della pretesa irragionevole durata del suo processo soltanto quando abbia finito di utilizzare tutti i rimedi (non solo presenti in teoria ma anche effettivi in concreto) offerti dall’ordinamento del suo Paese, quindi in Italia per definizione solo quando abbia esperito tutti i gradi di giudizio sino al passare in giudicato definitivo di una sentenza in Cassazione. Ma il sistema italiano non ha una norma di chiusura che scongiuri l’eventualità che un processo non approdi mai a una conclusione in un tempo ragionevole a causa dei possibili ripetuti annullamenti con rinvio da parte della cassazione, e delle successive impugnazioni delle sentenze di merito di condanna (da parte della difesa) o di assoluzione (da parte dell’accusa). Per questo la difesa del professore, dopo l’ottavo grado (condanna in appello a 13 anni e centinaia di migliaia di euro di risarcimenti alle parti civili) e prima del nono grado in cassazione, ha provato ugualmente a instaurare una procedura a Strasburgo e ad argomentare che l’ordinamento italiano — laddove da un lato prospetta che per ricorrere alla Corte europea la sentenza emessa dallo Stato italiano debba prima essere diventata definitiva, ma dall’altro non prevede un meccanismo correttivo del rischio che essa non arrivi mai nei rimbalzi di annullamenti continui — di fatto renderebbe inapplicabile l’articolo 34 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e negherebbe al cittadino la possibilità di ricorrere alla Corte di Strasburgo.
E a sorpresa da Strasburgo il 27 settembre scorso è arrivata alla difesa del professore una risposta in sé tecnicamente non inedita (pochi altri casi ci sono già stati, per lo più in presenza di prescrizioni maturate), ma pur sempre piuttosto inusuale: una lettera dove la Corte Cedu, sebbene non vi sia ancora una sentenza italiana definitiva, comunica il numero di registrazione del ricorso «contro Italia». Che dunque risulta già adesso formalmente incardinato.
Luigi Ferrarella
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