Giuseppe Ceccarelli, Ladies 26/10/2013, 26 ottobre 2013
ROMA SU MISURA
SE UNA PERSONA INDOSSA una mia camicia, è per qualcosa che c’è dentro, che si legge nella trama, una dimensione umana, una confidenza». Piero Albertelli, storico camiciaio romano, riassume così i suoi 45 anni di esperienza. Ma in realtà non solo quello. Oltre ai vestiti c’è altro. «Esiste un valore affettivo del prodotto artigianale. Quello che nasce da un rapporto personale tra chi crea e chi indossa, fatto di momenti d’intimità, di emozioni diverse». Cosi Silvia Venturini Fendi, presidente di AltaRomAltaModa, la manifestazione capitolina in cui il valore artigianale dell’abito cucito addosso è protagonista, spiega la magia del su misura nella prefazione di Una guida su misura. Roma. 239 luoghi della capitale dove l’uomo può farsi realizzare abiti e accessori su misura (Palombi Editore, 19 euro). Il bespoke è l’haute couture al maschile che, anche senza la ribalta di palcoscenici più coreografici, sta assumendo un ruolo di rinnovato fascino. Come le première che cuciono instancabili i maestosi vestiti da passerella, anche per gli uomini abilissime mani creano, in ambienti più schivi e defilati, pezzi unici che non solo vestono, ma soprattutto raccontano. Da questa consapevolezza è nato Bespoke Tour, un inedito percorso ideato da AltaRomAltaModa attraverso tre selezionatissimi atelier romani, protagonisti della cultura della fabbricazione artigianale: Marini specializzato nella produzione di calzature, Albertelli nella camiceria e la Sartoria Ripense nella confezione di abiti. Quelli coinvolti nel progetto sono testimoni imperdibili di un patrimonio che vorrebbe continuare ma che trova parecchie difficoltà nonostante la richiesta. In pieno centro a Roma, si arriva in via Crispi e si entra al numero 97 per incontrare Daniele Marini, quarta generazione di artigiani della scarpa. E, dopo pochi minuti, si vorrebbe solo ascoltare i suoi racconti, ma senza dimenticarsi delle scarpe. Perché le sue storie parlano di come si fa una scarpa artigianale, senza passaggi in fabbrica. Ci si siede e vengono prese le misure al piede: lunghezza, altezza, collo... Poi, in piedi sopra un foglio (il cartamodello), con la penna viene tracciato il profilo del piede e da li inizia la lavorazione della forma. Un gesto dopo l’altro. Il piede di legno e la base, poi si aggiunge il cuoio e si leviga piano piano fino ad avere la forma perfetta. Ars sutoria (arte del calzolaio) viene chiamata, e già il nome restituisce qualcosa di nobile. Come molti dei clienti. L’archivio di Marini contiene più di 6mila cartamodelli, di cui 3mila solo del re del Marocco. Ma i nomi illustri sono tanti, come quello di Sergio Leone che, entusiasta, ha portato qui l’attore Robert De Niro quando era a Roma per girare C’era una volta in America. Oppure Lapo Elkann, che ha fatto conoscere al nonno Giovanni le scarpe di Marini.
Usciti da Marini, si percorrono altri vicoli per arrivare in via della Pallacorda 1 e scendere nelle stanze di Piero Albertelli che fa camicie dal 1967, anno in cui, dopo un’esperienza nel cinema con lo scenografo e costumista Danilo Donati, ha aperto la sua bottega iniziando a collaborare con le sorelle Fendi. Qui si ascoltano termini desueti come corpista, che raccontano di abilità dimenticate. Il ricordo più vivo di Albertelli è quello della madre e delle zie che, in una pentola ammaccata, bollivano il semirigido dei colli. Un’operazione che oggi non si fa più, ma lui e le sue «ragazze», come le chiama (la più giovane ha 67 anni) continuano con instancabile tenacia il rito della camicia su misura. «Da qui sono passati in tanti», spiega, «dall’attore Arthur Kennedy al presidente Oscar Luigi Scalfaro, a Valentino Garavani. Bisogna essere anche psicologi, confidenti, perché il 70% del nostro lavoro dipende da questo. Purtroppo, i clienti di oggi sono meno consapevoli. Una volta, per esempio, per il produttore Goffredo Lombardo, fondatore della Titanus, facevamo le camicie di seta solo in estate, perché la seta deve asciugare all’aria aperta e basta. E lui lo sapeva». Si cammina ancora un po’ verso l’Ara Pacis per arrivare in via di Ripetta, salotto buono della capitale, come si leggerebbe su un rotocalco d’altri tempi, e al numero 38 varcare la soglia della Sartoria Ripense. Anche qui, come spiega il proprietario, Andrea Luparelli, «si entra in un mondo a parte». Armadi di legno massiccio, un grande tavolo al centro e tre sarti che segnano, imbastiscono, tagliano. Il cliente siede su uno sgabello e osserva le trame di un abito a tre pezzi che sta prendendo forma. «Ho iniziato 15 anni fa», racconta Luparelli, «raccogliendo l’eredità di mio nonno, con l’idea precisa di mantenerne il Dna. Gli abiti vanno costruiti sul cliente con la nostra arte e le nostre conoscenze. Sono come due anime che s’incontrano».
Fin qui la magia. Ma questi piccoli luoghi sono l’economia reale dell’Italia, con i soliti problemi di istituzioni assenti e difficile reperibilità di mano d’opera. Ed è per questo che guardano anche all’estero, non solo per i big spender, ma per la passione verso l’alto artigianato nutrita da cinesi, giapponesi, coreani o nord europei, che sempre di più scelgono di venire in Italia per imparare un mestiere. Un paese con le mani d’oro che deve considerare le abilità artigianali la sua grande ricchezza del made in Italy.