Sara Hejazi, Io Donna 26/10/2013, 26 ottobre 2013
ECCO LE SUORE DEL VILLAGGIO GLOBALE
Quando telefono alle monache passioniste di clausura per chieder loro se posso incontrarle, suor Enrica declina con dolcezza, con un accento vagamente orientale: «Il mondo come è oggi non ci permette di fare entrare in clausura gli sconosciuti. Sa, ci sono tanti che vogliono prenderci in giro».
Lei arriva dall’altra parte del mondo, come accade sempre più spesso alla maggior parte delle monache di clausura in Italia. Nel suo monastero a Ovada (provincia di Alessandria), sono cinque italiane e tredici indonesiane. Non è un caso isolato: a Mercatello sul Metauro (nelle Marche) le clarisse cappuccine arrivano per lo più dal Benin, le clarisse di San Severino dalle Filippine, le minime di San Francesco di Grottaferrata dal Messico, e così via. Monasteri sempre più multietnici? Sì, soprattutto pensando “in prospettiva”, perché se oggi, nei 500 monasteri italiani, le monache straniere sono “solo” il 20 per cento, straniere sono però il 35 per cento delle novizie e il 45 per cento delle professe temporanee.
I monasteri italiani avranno un volto asiatico o sudamericano tra 10-15 anni.
Ma la realtà è ancora più complessa. Se si va per esempio nel suggestivo monastero indu Gitananda Ashram di Altare, vicino a Savona (il più importante in Italia), nonostante il look delle ashramite sia capello lungo e scuro, non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: sono tutte italiane.
«Sono stata battezzata, ma non posso dire che la mia famiglia fosse davvero cattolica praticante» racconta una giovane ashramita originaria di Roma. «Era più una facciata. È all’ashram che ho imparato il senso spirituale dell’esistenza».
Svamini Hamsananda Giri è una delle monache storiche dell’ashram, dove insegna filosofia indiana e yoga. Per anni ha lavorato al riconoscimento, da parte dello Stato, del culto induista attraverso l’Unione Induisti Italiani (nel nostro Paese sono circa 26mila i seguaci di questa religione), e finalmente quest’anno l’intesa è arrivata. «I tempi ormai erano maturi» dice lei, con un sorriso pieno di consapevolezza.
Anche tra i 135mila buddisti italiani, sono soprattutto le donne che scelgono il monachesimo. Al monastero buddista zen Shobozan Fudenji di Salsomaggiore si recitano i sutra in giapponese, si pratica la meditazione zen sugli zafu e sui tatami, si mangia nelle ciotole e si può ammirare la bellissima struttura del monastero immerso nel verde delle colline, con le porte scorrevoli shoji, come in Giappone. Eppure, non vi è monaca che arrivi da oltre la Lombardia e l’Emilia Romagna.
Rosella Myren, ordinata da una decina di anni, prima di trovarsi lo zen sul proprio cammino era fervente cattolica: «A messa tutte le domeniche, volontariato, preghiera. Ero così chiusa e convinta, che all’inizio mi faceva persino senso vedere i monaci buddisti senza capelli» dice sorridendo con i suoi begli occhi azzurri e passandosi una mano sulla testa rasata a zero. «Mi coprivo gli occhi per non guardarli».Chi l’avrebbe mai detto.
A Pomaia, nel cuore della Toscana, al monastero buddista Lama Tzong Khapa, di tibetano c’è solo il Lama stesso, inviato appositamente dal Tibet. Il resto dei monaci, e soprattutto delle monache, che sono in maggioranza, è di nazionalità italiana. Tachi viveva a Roma, suonava la chitarra e lavorava alla Zecca.
«Meglio tardi che mai» dice. «Mi sono convertita superata la cinquantina, perché c’era qualcosa che mancava nella mia vita. Avevo più o meno tutto, tranne ciò che conta davvero». E cos’è che conta davvero? «Essere felici» mi dice, con un sorriso pieno di orgoglio e speranza insieme.
Monache cristiane straniere, monache buddiste e induiste italiane: siamo nel villaggio globale del monachesimo?
«La vita monastica non è una fuga dalla realtà, ma è sempre più lo specchio del mondo» ci dice Maria Chiara Giorda, storica delle religioni all’università di Torino ed esperta di monachesimo delle origini. Dopo le prime comunità del IV secolo, si trova oggi a studiare i monasteri contemporanei: «I monaci rappresentano un modo di vita che ci permette di leggere la modernità e le sue sfaccettature: nelle comunità femminili si ritrovano spesso alcuni degli aspetti sociali, psicologici, culturali che segnano la vita delle donne di oggi». Un esempio? «Il rapporto con l’immigrazione e con le straniere, l’invecchiamento della popolazione autoctona, la vocazione che arriva sempre più tardi, proprio come la maternità fuori dal chiostro. E il peso sempre più importante della scelta individuale».
Come va trasformandosi dunque il monachesimo? «In cinquant’anni l’Italia ha perso più del 50 per cento delle proprie monache: siamo passati da da 12.863 a 5.828. Negli ultimi decenni, in particolare, la vocazione è arrivata sempre più di rado. Poi si è diffuso il monachesimo “orientale” che invece sembra essere un fenomeno in crescita.
Infine, le monache italiane di tutte le religioni si confrontano con un costante aumento di interesse del “pubblico” laico nei confronti dei monasteri, specie femminili».
Si tratta dell’ormai noto fenomeno del turismo spirituale: single, famiglie, giovani e vecchi vanno in monastero con la modalità “mordi e fuggi”, si immergono nella ricerca di Dio qualche ora, qualche giorno, a volte qualche mese, per poi tornare, forse rinfrancati, nel tran tran quotidiano senza Dio.
«È bene che ci considerino ancora i parafulmini dell’umanità » ci dice Madre Ignazia del monastero di Viboldone, che ha sempre tanti ospiti laici, «ma alla fine il rischio è quello di diventare puro elemento di folklore».
Per questo suor Enrica aveva paura di essere presa in giro. Per come va oggi il mondo, agli italiani e alle italiane sembra più plausibile convertirsi al buddismo tibetano, che farsi monaca di clausura.