Riccardo Redaelli, Avvenire 27/10/2013, 27 ottobre 2013
LIBIA OSTAGGIO DELLE MILIZIE
Il 10 ottobre, Ali Zidan, primo ministro libico, veniva preso in ostaggio per poche ore da un gruppo di miliziani, come rappresaglia per la cattura da parte delle forze speciali statunitensi di Abu Anas al-Libi, ritenuto uno dei capi delle cellule di al-Qaeda nel Paese. Il paradosso è che, solo tre giorni prima del rapimento-lampo, uno dei principali consiglieri del capo del governo – dalla sua lussuosa scrivania – aveva affermato che «è venuto il momento per il primo ministro di usare la forza contro tutti quelli che lavorano per destabilizzare lo Stato. Il governo userà la forza, e lo farà con grande determinazione».
La sera stessa, uno dei dirigenti dei Fratelli musulmani aveva replicato con ironia: «Ali Zidan userà la forza? Quale forza?». Non potrebbe esserci un’immagine migliore per descrivere lo stato di confusione, disordine e progressiva polarizzazione politica di un Paese che sembra avere smarrito la propria strada, a due anni esatti dalla fine del regime quarantennale di Gheddafi.
L’anarchia delle bande
Per raccontare che cosa non funziona nella nuova Libia (in verità, quasi tutto), è necessario partire dal problema indicato unanimemente come il più grave, ossia la questione della sicurezza con l’incapacità del governo di mettere ordine fra la miriade di milizie. Spesso in competizione fra loro, molte di queste unità sono state formalmente integrate in nuove strutture di sicurezza nazionali, con il risultato di creare una molteplicità di attori che dovrebbero garantire la sicurezza. Teoricamente, al primo livello, vi sono le Forze armate nazionali e la polizia regolare. Già deboli al tempo di Gheddafi – che non si fidava troppo dei suoi soldati –, uscite umiliate dalla rivoluzione: fragili, demoralizzate, male armate e peggio pagate, guardate con sospetto da molti dei rivoluzionari, sono oggi incapaci di garantire la sicurezza nelle città o lungo le frontiere. Anzi, spesso non riescono ad assicurare la loro stessa sicurezza: in ottobre, 17 soldati sono stati uccisi in un agguato, mentre il comando generale delle Forze armate viene sovente accerchiato da miliziani che pretendono soldi, concessioni, o il rilascio di loro compagni arrestati. Senza che ciò porti a una reazione dei militari.
Una galassia di sigle
Subito sotto, vi sono due nuovi organismi, il Comando Supremo per la Sicurezza (SSC) e la Libya Shield Force (la Forza Scudo): il primo teoricamente dipende dal ministero dell’Interno, la seconda da quello della Difesa. In realtà, si tratta di forze quasi impossibili da gestire, dato che al loro interno vi sono le principali milizie rivoluzionarie libiche, cioè le vere padrone della situazione. Fra di esse, le cosiddette milizie militarizzate, ossia più strutturate gerarchicamente, fra le quali spicca la Brigata di Misurata, l’unità forse più nota e temuta oggi nel Paese. È stata uno dei pilastri della rivoluzione e oggi controlla parte di Tripoli e delle altre zone nevralgiche. Vicina ai partiti islamisti, ha interferito spesso nell’attività del Parlamento (il Consiglio Nazionale Generale - GNC) ed è considerata ostile al blocco dei partiti nazionalisti e dei ’liberali’.
Sua principale oppositrice è la Brigata di Zintan, sovente classificata come milizia politicizzata (meno strutturata gerarchicamente), vicina al blocco nazionalista e collegata a gruppi tribali dell’Ovest. Entrambe si fronteggiano sia nella capitale sia nelle zone degli impianti petroliferi per il diritto di garantirne la sicurezza, che significa la possibilità di taglieggiare ed estorcere compensi da chi estrae e trasporta gas e petrolio, con la minaccia, spesso messa in atto, di bloccare il flusso di oro nero.
Attorno a esse, vi è poi un florilegio di milizie tribali e territoriali: una delle più determinate è quella della tribù al-Zuwayya, in Cirenaica, dove soffia il fuoco dell’indipendentismo e dello scontro con la capitale Tripoli; vi sono poi le milizie jihadiste e qaediste (la più nota è Ansar al-Shari’a), forti soprattutto a Derna e nel Sud, responsabili del clima di insicurezza e pericolo che regna in Cirenaica.
Se a ciò si aggiunge che tutti i libici sono armati (si stimano 60 milioni di armi per 6 milioni di abitanti e un kalashnikov costa attorno ai 1.000-1.200 dinari, circa 600-700 euro; il mio accompagnatore non si capacitava che non volessi concludere un ottimo affare), sembra già un miracolo che il Paese non sia in preda a una nuova guerra civile.
La polarizzazione politica
Il degenerare dello scenario di sicurezza è chiaramente collegato alle difficoltà politiche della Libia. Un poco a sorpresa, nelle elezioni dell’estate 2012, l’Alleanza nazionalista di Mahmud Jibril aveva sconfitto le forze islamiste: inferiori alle attese i seggi per il partito dei Fratelli musulmani (Giustizia e Sviluppo) e estremamente deludenti i risultati dei partiti salafiti. Nel mezzo vi erano poi una serie di candidati indipendenti o legati ai gruppi tribali, decisivi per formare una maggioranza, che si sono rivelati estremamente manipolabili e influenzabili dai gruppi islamisti.
Il dopo elezioni ha tuttavia mostrato la fragilità del nuovo sistema politico: il Parlamento è spesso paralizzato dai veti incrociati e sotto il ricatto delle milizie, che impunemente lo hanno occupato decine di volte; il debole governo di Ali Zidan – bersaglio della propaganda islamista e dell’insoddisfazione della Cirenaica, che si aspettava l’avvio di un programma di decentramento dello Stato in senso federale – non ha saputo far altro che distribuire a pioggia i proventi petroliferi per guadagnare tempo. Di fatto, il potere si è via via spostato dalle aule parlamentari e dai ministeri, concentrandosi nelle mani delle milizie o dei capi tribali e dei politici più potenti. Con il risultato di una progressiva paralisi di ogni iniziativa (o almeno di quelle sensate): la nuova Costituzione arriverà solo alla fine di un processo lungo, complicato e molto controverso. E dopo enormi pressioni delle milizie e degli islamisti è stata votata una legge per escludere dalla politica e dall’amministrazione i personaggi più compromessi con il passato regime: se fosse veramente applicata, porterebbe alla cacciata di buona parte dei pochi quadri tecnici con competenze specialistiche.
Il governo si difende dall’accusa di inefficienza, sostenendo – non senza ragioni – «di essere passato continuamente da una crisi all’altra », senza avere avuto mai la possibilità di avviare il proprio programma. Per di più, il blocco liberale di Jibril ha reagito alla crescita di influenza dei partiti islamisti in Parlamento irrigidendo le proprie posizioni e, secondo qualcuno, puntando al ’tanto peggio tanto meglio’, forse nella speranza di una soluzione ’all’egiziana’ anche per la Libia (con l’estromissione dalla politica ufficiale degli islamisti).
Dove è finito tutto l’oro nero?
Insomma, in questi mesi si è assistito a una polarizzazione politica che ha indebolito il Paese e ha permesso la propaganda dei nostalgici del vecchio regime. In molti, pur condannando Gheddafi, sottolineano l’insicurezza e la paralisi economica di questi mesi. «Il bazar è vuoto – spiega un membro di una delle famiglie commerciali più antiche di Tripoli – e sempre meno protetto. In caso di furti, dobbiamo rivolgerci, pagando, a una milizia, dato che la polizia nemmeno esce dalle caserme». Oppure bisogna affidarsi – come capita nelle cittadine più piccole e nelle zone rurali – alle autorità tribali, che in questi due anni sono state un importante elemento di pacificazione e di moderazione. Ma che contano sempre meno nelle grandi città. E il clima di incertezza comporta anche il rallentamento degli investimenti stranieri e del trasferimento di tecnologia, di cui la Libia ha un disperato bisogno: «tutti vogliono venderci qualcosa, ma pochi accettano di investire», dice uno dei più famosi industriali del Paese.
Mancano acqua ed energia
Ma il paradosso di questo Paese poco popolato e seduto su un mare di petrolio e gas è che ora, nelle città, manca a tratti l’energia elettrica (e scarseggia anche l’acqua). La produzione di petrolio è crollata dal milione e mezzo di barili abituale a meno di 250.000 barili al giorno nell’agosto 2013, a seguito di proteste, scioperi, occupazioni dei centri di produzione. A settembre, si è scesi sotto i 100.000, per poi faticosamente risalire in ottobre. Nell’Est, in una Cirenaica sempre più in ebollizione, si sono scoperti anche traffici illegali, con il contrabbando di enormi quantitativi di petrolio. La volontà del governo di vederci chiaro ha portato al blocco della produzione come ritorsione, a cui si è aggiunto il sabotaggio delle condutture idriche che portano l’acqua alla assetata capitale. Dato che il Paese dipende per il 97% delle sue esportazioni dagli idrocarburi, e che tutti i libici ricevono sussidi e prebende dallo Stato, è facile capire come il tracollo della produzione sia una bomba a tempo che rischia di trascinare i libici in una nuova guerra civile.
Tentativi di pacificazione
E forse è proprio la percezione di essere sull’orlo di un abisso che sta spingendo i gruppi politici a parlare di riconciliazione nazionale. Anche i partiti islamisti sembrano più flessibili e disponibili al compromesso. Ma le differenze rimangono forti e, soprattutto, si fatica a trovare formule e modi, in un Paese poco abituato al confronto politico. Forse per questo sembra si sia più disposti ad affidarsi all’aiuto esterno, innanzitutto all’Italia, che è generalmente percepita come un Paese che conosce la Libia e di cui fidarsi. Roma è molto attiva in tutti i programmi di addestramento delle milizie e come facilitatore del dialogo. Ma nessuno deve farsi illusioni: non esistono facili ricette, né la soluzione può venire dall’esterno. La comunità internazionale può solo aiutare un cammino di moderazione e di stabilizzazione che deve partire dall’interno. Imparando dagli errori di questi due anni sprecati del dopo Gheddafi.