Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 27 Domenica calendario

LIBIA OSTAGGIO DELLE MILIZIE

Il 10 ottobre, Ali Zidan, primo ministro libico, veniva preso in ostaggio per poche ore da un gruppo di miliziani, come rappre­saglia per la cattura da parte del­le forze speciali statunitensi di A­bu Anas al-Libi, ritenuto uno dei capi delle cellule di al-Qaeda nel Paese. Il paradosso è che, solo tre giorni prima del rapimento-lam­po, uno dei principali consiglieri del capo del governo – dalla sua lussuosa scrivania – aveva affer­mato che «è venuto il momento per il primo ministro di usare la forza contro tutti quelli che lavo­rano per destabilizzare lo Stato. Il governo userà la forza, e lo farà con grande determinazione».
La sera stessa, uno dei dirigenti dei Fratelli musulmani aveva replica­to con ironia: «Ali Zidan userà la forza? Quale forza?». Non potreb­be esserci un’immagine migliore per descrivere lo stato di confu­sione, disordine e progressiva po­larizzazione politica di un Paese che sembra avere smarrito la pro­pria strada, a due anni esatti dal­la fine del regime quarantennale di Gheddafi.

L’anarchia delle bande
Per raccontare che cosa non fun­ziona nella nuova Libia (in verità, quasi tutto), è necessario partire dal problema indicato unanime­mente come il più grave, ossia la questione della sicurezza con l’in­capacità del governo di mettere ordine fra la miriade di milizie. Spesso in competizione fra loro, molte di queste unità sono state formalmente integrate in nuove strutture di sicurezza nazionali, con il risultato di creare una mol­teplicità di attori che dovrebbero garantire la sicurezza. Teorica­mente, al primo livello, vi sono le Forze armate nazionali e la polizia regolare. Già deboli al tempo di Gheddafi – che non si fidava trop­po dei suoi soldati –, uscite umi­liate dalla rivoluzione: fragili, de­moralizzate, male armate e peg­gio pagate, guardate con sospetto da molti dei rivoluzionari, sono oggi incapaci di garantire la sicu­rezza nelle città o lungo le fron­tiere. Anzi, spesso non riescono ad assicurare la loro stessa sicurezza: in ottobre, 17 soldati sono stati uc­cisi in un agguato, mentre il co­mando generale delle Forze ar­mate viene sovente accerchiato da miliziani che pretendono soldi, concessioni, o il rilascio di loro compagni arrestati. Senza che ciò porti a una reazione dei militari.

Una galassia di sigle
Subito sotto, vi sono due nuovi or­ganismi, il Comando Supremo per la Sicurezza (SSC) e la Libya Shield Force (la Forza Scudo): il primo teoricamente dipende dal mini­stero dell’Interno, la seconda da quello della Difesa. In realtà, si tratta di forze quasi impossibili da gestire, dato che al loro interno vi sono le principali milizie rivolu­zionarie libiche, cioè le vere pa­drone della situazione. Fra di es­se, le cosiddette milizie militariz­zate, ossia più strutturate gerar­chicamente, fra le quali spicca la Brigata di Misurata, l’unità forse più nota e temuta oggi nel Paese. È stata uno dei pilastri della rivo­luzione e oggi controlla parte di Tripoli e delle altre zone nevralgi­che. Vicina ai partiti islamisti, ha interferito spesso nell’attività del Parlamento (il Consiglio Naziona­le Generale - GNC) ed è conside­rata ostile al blocco dei partiti na­zionalisti e dei ’liberali’.
Sua principale oppositrice è la Bri­gata di Zintan, sovente classifica­ta come milizia politicizzata (me­no strutturata gerarchicamente), vicina al blocco nazionalista e col­legata a gruppi tribali dell’Ovest. Entrambe si fronteggiano sia nel­la capitale sia nelle zone degli im­pianti petroliferi per il diritto di garantirne la sicurezza, che signi­fica la possibilità di taglieggiare ed estorcere compensi da chi estrae e trasporta gas e petrolio, con la minaccia, spesso messa in atto, di bloccare il flusso di oro nero.
Attorno a esse, vi è poi un florile­gio di milizie tribali e territoriali: una delle più determinate è quel­la della tribù al-Zuwayya, in Cire­naica, dove soffia il fuoco dell’in­dipendentismo e dello scontro con la capitale Tripoli; vi sono poi le milizie jihadiste e qaediste (la più nota è Ansar al-Shari’a), forti soprattutto a Derna e nel Sud, re­sponsabili del clima di insicurez­za e pericolo che regna in Cire­naica.
Se a ciò si aggiunge che tutti i libi­ci sono armati (si stimano 60 mi­lioni di armi per 6 milioni di abi­tanti e un kalashnikov costa attor­no ai 1.000-1.200 dinari, circa 600-700 euro; il mio accompagnatore non si capacitava che non volessi concludere un ottimo affare), sembra già un miracolo che il Pae­se non sia in preda a una nuova guerra civile.

La polarizzazione politica
Il degenerare dello scenario di si­curezza è chiaramente collegato alle difficoltà politiche della Libia. Un poco a sorpresa, nelle elezioni dell’estate 2012, l’Alleanza nazio­nalista di Mahmud Jibril aveva sconfitto le forze islamiste: infe­riori alle attese i seggi per il parti­to dei Fratelli musulmani (Giusti­zia e Sviluppo) e estremamente deludenti i risultati dei partiti sa­lafiti. Nel mezzo vi erano poi una serie di candidati indipendenti o legati ai gruppi tribali, decisivi per formare una maggioranza, che si sono rivelati estremamente mani­polabili e influenzabili dai gruppi islamisti.
Il dopo elezioni ha tuttavia mo­strato la fragilità del nuovo siste­ma politico: il Parlamento è spes­so paralizzato dai veti incrociati e sotto il ricatto delle milizie, che impunemente lo hanno occupato decine di volte; il debole governo di Ali Zidan – bersaglio della pro­paganda islamista e dell’insoddi­sfazione della Cirenaica, che si a­spettava l’avvio di un programma di decentramento dello Stato in senso federale – non ha saputo far altro che distribuire a pioggia i proventi petroliferi per guada­gnare tempo. Di fatto, il potere si è via via spo­stato dalle aule parlamentari e dai ministeri, concentrandosi nelle mani delle milizie o dei capi tri­bali e dei politici più potenti. Con il risultato di una progressiva pa­ralisi di ogni iniziativa (o almeno di quelle sensate): la nuova Costi­tuzione arriverà solo alla fine di un processo lungo, complicato e mol­to controverso. E dopo enormi pressioni delle milizie e degli isla­misti è stata votata una legge per escludere dalla politica e dall’am­ministrazione i personaggi più compromessi con il passato regi­me: se fosse veramente applicata, porterebbe alla cacciata di buona parte dei pochi quadri tecnici con competenze specialistiche.
Il governo si difende dall’accusa di inefficienza, sostenendo – non senza ragioni – «di essere passato continuamente da una crisi all’al­tra », senza avere avuto mai la pos­sibilità di avviare il proprio pro­gramma. Per di più, il blocco libe­rale di Jibril ha reagito alla cresci­ta di influenza dei partiti islamisti in Parlamento irrigidendo le pro­prie posizioni e, secondo qualcu­no, puntando al ’tanto peggio tan­to meglio’, forse nella speranza di una soluzione ’all’egiziana’ an­che per la Libia (con l’estromis­sione dalla politica ufficiale degli islamisti).

Dove è finito tutto l’oro nero?
Insomma, in questi mesi si è assi­stito a una polarizzazione politica che ha indebolito il Paese e ha per­messo la propaganda dei nostal­gici del vecchio regime. In molti, pur condannando Gheddafi, sot­tolineano l’insicurezza e la parali­si economica di questi mesi. «Il ba­zar è vuoto – spiega un membro di una delle famiglie commercia­li più antiche di Tripoli – e sempre meno protetto. In caso di furti, dobbiamo rivolgerci, pagando, a una milizia, dato che la polizia nemmeno esce dalle caserme». Oppure bisogna affidarsi – come capita nelle cittadine più piccole e nelle zone rurali – alle autorità tribali, che in questi due anni so­no state un importante elemento di pacificazione e di moderazio­ne. Ma che contano sempre meno nelle grandi città. E il clima di in­certezza comporta anche il ral­lentamento degli investimenti stranieri e del trasferimento di tec­nologia, di cui la Libia ha un di­sperato bisogno: «tutti vogliono venderci qualcosa, ma pochi ac­cettano di investire», dice uno dei più famosi industriali del Paese.

Mancano acqua ed energia
Ma il paradosso di questo Paese poco popolato e seduto su un ma­re di petrolio e gas è che ora, nel­le città, manca a tratti l’energia e­lettrica (e scarseggia anche l’ac­qua). La produzione di petrolio è crollata dal milione e mezzo di ba­rili abituale a meno di 250.000 ba­rili al giorno nell’agosto 2013, a se­guito di proteste, scioperi, occu­pazioni dei centri di produzione. A settembre, si è scesi sotto i 100.000, per poi faticosamente ri­salire in ottobre. Nell’Est, in una Cirenaica sempre più in ebollizio­ne, si sono scoperti anche traffici illegali, con il contrabbando di e­normi quantitativi di petrolio. La volontà del governo di vederci chiaro ha portato al blocco della produzione come ritorsione, a cui si è aggiunto il sabotaggio delle condutture idriche che portano l’acqua alla assetata capitale. Dato che il Paese dipende per il 97% delle sue esportazioni dagli i­drocarburi, e che tutti i libici rice­vono sussidi e prebende dallo Sta­to, è facile capire come il tracollo della produzione sia una bomba a tempo che rischia di trascinare i libici in una nuova guerra civile.

Tentativi di pacificazione
E forse è proprio la percezione di essere sull’orlo di un abisso che sta spingendo i gruppi politici a parlare di riconciliazione nazio­nale. Anche i partiti islamisti sem­brano più flessibili e disponibili al compromesso. Ma le differenze ri­mangono forti e, soprattutto, si fa­tica a trovare formule e modi, in un Paese poco abituato al con­fronto politico. Forse per questo sembra si sia più disposti ad affidarsi all’aiuto e­sterno, innanzitutto all’Italia, che è generalmente percepita come un Paese che conosce la Libia e di cui fidarsi. Roma è molto attiva in tutti i programmi di addestra­mento delle milizie e come facili­tatore del dialogo. Ma nessuno de­ve farsi illusioni: non esistono fa­cili ricette, né la soluzione può ve­nire dall’esterno. La comunità in­ternazionale può solo aiutare un cammino di moderazione e di sta­bilizzazione che deve partire dal­l’interno. Imparando dagli errori di questi due anni sprecati del do­po Gheddafi.