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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

INTERVISTA A BERNALD LEONE

A lavare i panni ci pensano due ex nomadi, due ragazze rom che hanno ripudiato il clan dei Casamonica, ritenuto dalla Direzione investigativa antimafia l’organizzazione criminale più potente del Lazio, alleata della ’ndrangheta, da 40 anni specializzata in omicidi, furti, rapine, narcotraffico, riciclaggio, prostituzione, gioco d’azzardo, estorsioni, truffe e prestiti con interessi usurari superiori al 150% annuo. A riportare i panni puliti negli alberghi e negli ospedali è A.G., un ergastolano sardo di 55 anni, da 20 recluso a Rebibbia, che può lavorare all’esterno mezza giornata perché fruisce del regime di semilibertà per buona condotta. A dargli una mano nelle consegne e nei ritiri è un altro pregiudicato, C.T., 35 anni, romano, che ha passato 48 mesi in carcere per traffico di stupefacenti e ora deve scontarne altri 48 agli arresti domiciliari.
Ma che razza di azienda è questa Is a laundry, società a responsabilità limitata con sede legale in via del Crocifisso 51 a Roma, nei pressi del Vaticano, e macchinari in via Alessandro Della Seta, verso Ciampino? Is a laundry, è una lavanderia, appunto. Ma la ragione sociale in lingua inglese non deve trarre in inganno. Quell’«is a» in realtà sta per Isa, acronimo di Impresa Sant’Annibale. Infatti la ditta è stata creata da quattro soci in collaborazione con la Onlus della congregazione dei Padri Rogazionisti fondata da Annibale Maria di Francia, il nobile messinese che sul finire dell’Ottocento lasciò i beni di famiglia per farsi prete, andò a vivere tra i poveri del malfamato quartiere Avignone, si distinse nell’assistenza ai malati, raccolse i bambini rimasti orfani in seguito al terribile terremoto del 1908 e fu proclamato santo da Papa Wojtyla nel 2004. Is a laundry si occupa del servizio di lavanderia industriale e del noleggio di biancheria e divise per comunità, hotel, cliniche. Con una particolarità: il 90% dei suoi dipendenti ha alle spalle storie di vita drammatiche.
Ad avviare la lavatrice che pulisce ogni peccato è stato Bernald Leone, 28 anni, originario di Durazzo, in Albania, amministratore delegato della Srl. Anzi, le lavatrici: una con capacità di 55 chili per ciclo, l’altra di 35, per un totale di 75 quintali di tessuti lavati ogni giorno, l’equivalente del tovagliame di 40 grandi ristoranti. A esse si aggiungono i tre tunnel di lavaggio di due ditte partner e i mangani che asciugano, stirano e piegano questa montagna di roba. A occuparsi delle due lavatrici è la cooperativa Baxtaló Drom, che significa «la strada della felicità», formata da donne rom e sinti, presieduta da Mioara Miclescu, una romena che vive in un campo nomadi comunale alla Magliana.
Leone è riuscito a coinvolgere Giorgio Paro, imprenditore già da tempo inserito nel ramo del lavaggio industriale; Franco Gervasi, direttore tecnico in un’azienda di manutenzione alberghiera; Barbara Accame, imprenditrice della comunicazione, figlia del defunto giornalista e scrittore Giano Accame, uno degli intellettuali più lucidi della destra italiana, e sorella di Niccolò, «mio grande amico, sono stato suo collaboratore e autista nel periodo in cui era direttore generale prima alla Regione Lazio e poi al ministero della Salute durante le presidenze di Francesco Storace». Affiancando la Isa e lo stesso Leone, i soci hanno sborsato 110.000 euro di capitale d’avviamento, forse più interessati all’opera di bene che al business, così come tanti altri personaggi che dimostrano simpatia per l’esperimento nato sotto il mantello di Sant’Annibale, dall’ex calciatore Gianni Rivera al deputato Matteo Colaninno, fino ad Angelo Ferro, past president dell’Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti). Ma la loro generosità è stata subito ripagata: dalla fondazione, 19 febbraio 2012, Is a laundry s’è conquistata parecchie commesse (15 ristoranti, 5 alberghi, la casa di cura Salvator Mundi e una residenza sanitaria assistenziale), aumentando di sei volte il fatturato, e ora i Padri Rogazionisti possono guardare con rinnovata fiducia alle altre due start-up, Is a catering e Si dialoga, operative nella ristorazione e nei servizi per gli immigrati, che stanno offrendo sbocchi lavorativi agli ospiti della trentina di case famiglia esistenti a Roma.
A Leone mancano cinque esami e la tesi per laurearsi in relazioni internazionali alla Lumsa. Per il 7 giugno 2014 ha già fissato le nozze con Giulia, maestra a Manoppello, in Abruzzo, conosciuta nella biblioteca dell’università. Ma ha già un figlio che sta finendo la quinta elementare a Rio de Janeiro, «un’adozione a distanza, si chiama Leonardo, come il prete che mi ha salvato». Sì, perché anche Bernald, come il bambino brasiliano, viene da una situazione familiare difficile. Il padre Ylli, ingegnere meccanico, morì a 40 anni per un tumore all’intestino dopo essersi separato dalla moglie. La madre Vyollca scappò dal regime comunista di Ramiz Alia, il successore del feroce dittatore Enver Hoxha, portando con sé l’unico figlio. «Avevo 5 anni».
Dove approdaste?
«In Italia, da clandestini. Un imprenditore edile di Bari, Onofrio Zaccaria, e la moglie Margherita, che erano venuti a visitare il campo profughi in provincia di Brindisi dov’eravamo stati rinchiusi, ci accolsero in casa propria. Mia madre aiutava nei lavori domestici, io divenni il loro quarto figlio. Sono stati miei padrini di battesimo e di cresima».
Sbaglio o il rosario che porta al collo ha lo stemma pontificio?
«Non sbaglia. È un ricordo della mia redenzione. Lo ha benedetto Papa Ratzinger. Quando avevo 6 anni, mia madre trovò lavoro come colf a Roma, per cui ci trasferimmo nella capitale. Io fui ammesso nell’istituto dei Rogazionisti a piazza Asti. Potevo restare ateo, al massimo diventare musulmano, come la maggioranza degli albanesi. Invece a 9 anni chiesi d’essere battezzato. Ma la conversione definitiva avvenne solo nel 2006».
Che accadde?
«Era l’8 dicembre, festa dell’Immacolata. Lavoravo all’Europcar di Ciampino. Sarei stato di riposo, ma una collega mi chiese di sostituirla. Ebbi un contrattempo e arrivai con 20 minuti di ritardo. Non m’era mai capitato. Disdetta volle che ad aspettare vi fosse un cliente che conosceva i capi dell’autonoleggio. Fui licenziato. Di lì una profonda riflessione: perché, qualsiasi cosa faccia, il mondo ce l’ha a morte con me, anche quando mi comporto bene? Mi sentivo una vittima. Come Gesù e Benedetto XVI, attaccati da tutte le parti. Dall’identificazione totale con Cristo e col suo vicario in terra, il passo successivo è stato inevitabile».
Perché impiega solo galeotti?
«Perché tutti quelli che ho conosciuto vengono da situazioni così».
Si fida?
«Prima di assumere S.S., 23 anni, romano, avrò parlato con altri 20 candidati, magari più svegli di lui, ma assai meno affidabili. Ha alle spalle una storia familiare tragica, è scappato di casa pur di uscirne. Ora studia da tecnico industriale. Gliel’ho imposto io di diplomarsi».
Per quale reato A.G. è stato condannato all’ergastolo?
«Omicidio. Ma non ha mai ucciso. Fu coinvolto in una rapina a un portavalori in cui morirono due carabinieri. L’educatrice che tiene i contatti col magistrato di sorveglianza mi ha assicurato che in 20 anni di galera non ha mai creato problemi. Ha persino ricevuto un encomio per la sua disponibilità ad aiutare i ragazzi che finiscono in carcere. Arriva da noi alle 14.30, lavora fino alle 18.30, poi resta in libertà ancora per qualche ora e alle 22 torna dentro. Basta un solo errore e lo rinchiudono per un altro anno».
Come l’ha scelto?
«Mi è stato segnalato dai dirigenti della clinica Salvator Mundi, nostra cliente, perché a Rebibbia aveva garantito l’incolumità di un detenuto, uno Spallone arrestato per gli aborti clandestini a Villa Gina, non so se il fratello o uno dei due figli di Mario Spallone, che fu il medico personale di Palmiro Togliatti. La legge non scritta del carcere è implacabile con chi si macchia di reati contro i bambini, anche quelli non ancora nati».
Un recluso modello.
«È molto umile e non cessa mai di ringraziare per l’opportunità offertagli. Da questo ho capito che è recuperato. In gioventù è stato un buon imprenditore agricolo. In Sardegna ha moglie e figli, ai quali fa avere tutti i mesi lo stipendio che versiamo a suo nome alla direzione del penitenziario».
Ma per quale motivo i suoi clienti accettano i servizi di persone ufficialmente poco raccomandabili?
«Non lo sanno. Lo sapranno dopo quest’intervista. Certo, sarebbe stato autolesionistico dirgli che l’autista addetto al ritiro e alla riconsegna della biancheria è un ergastolano».
La polizia vi controlla?
«Siamo conosciuti, mettiamola così».
Perché non assume disoccupati?
«Perché Sant’Annibale sceglieva solo i più disgraziati, come il cieco Zancone. E avviava al lavoro gli orfani nella piccola tipografia Antoniana che ingrandì fino a installarvi nel 1923 una rotativa. E poi spesso i disoccupati sono tali perché vogliono esserlo, un po’ come i barboni che si rifiutano di dormire nei ricoveri notturni. Basta la buona volontà e un lavoro si trova sempre. Glielo garantisce uno che ha cominciato a 15 anni come pony express di pizzerie e falegname».
Dipendenti «normali» ne ha?
«No. Se non sono ex criminali o svantaggiati non li voglio».
È un esperimento replicabile?
«Certamente. Siamo un’azienda che mira al profitto, non all’assistenzialismo, tant’è che abbiamo suscitato l’interesse di un manager che è stato direttore degli investimenti in Deutsche bank e nel fondo Clessidra».
Avrà fiutato l’affare.
«Nella sola Roma il flusso turistico supera i 26 milioni di persone l’anno. Finché ci saranno il Papa e il Colosseo, qui avremo sempre asciugamani, lenzuola e tovaglie da lavare».
Alberghi, ristoranti e cliniche come arrivano a lei?
«Sono io ad andarli a cercare. Hanno chiuso lavanderie storiche, come Best line e Bernacchi, colossi da 500 clienti a testa. È un immenso campo da arare».
E come lo dissoda?
«Praticando prezzi giusti, di mercato, ed evitando il sottocosto. Siamo molto attenti alla qualità. Laviamo bene, stiriamo bene. Soprattutto evitiamo di noleggiare le lenzuola con i buchi».
I suoi competitori chi sono?
«Gente come Pederzoli o Milanesi, che ha 12 lavanderie in Italia, o Napolillo, molto forte sulla piazza romana. Impossibile scalzarli. Però nel mio piccolo prima dell’estate sono riuscito a portar via tre ristoranti e due alberghi a Martorano, monopolista sulla costa tirrenica fino a Civitavecchia. Uno dei cinque poi se l’è ripreso sbracando sui prezzi. Colpa mia: non gli avevo fatto firmare subito il contratto. M’è servito da lezione».
Lei quanto guadagna al mese?
«Sui 1.200 euro. Un terzo dello stipendio se ne va per l’affitto di casa. Se volevo fare i soldi, avrei scelto un altro lavoro».
Ricevete aiuti?
«Né dall’Europa, né dallo Stato, né dalla Regione. Neanche un centesimo. Quand’era sindaco Gianni Alemanno, ci erano stati offerti 15.000 euro per la formazione, ma la riscossione richiedeva una procedura talmente ingarbugliata che ho deciso di lasciar perdere. E poi meglio stare alla larga dai politici».
Perché dice così?
«Perché ho vissuto in diretta ciò che hanno fatto al mio amico Niccolò Accame, coinvolto nel cosiddetto Laziogate solo perché è di destra e licenziato dal ministro della Salute, la democratica Livia Turco. Ha dovuto aspettare fino al 2013 per essere assolto con formula piena. Oggi è costretto a vivere fra l’Italia e l’Argentina, dove compra e vende terreni, pur avendo vinto la causa contro il ministero».
Come mai non assume gli albanesi che mendicano per strada?
«Perché non sono albanesi, bensì rom, afghani o pakistani. A volte abbasso il finestrino e chiedo: vuoi un lavoro? Scappano via».
S’è mai sentito discriminato per le sue origini?
«Fino alle scuole medie. Mi davano dell’extracomunitario con disprezzo e io gliele suonavo. Ero una testa calda, ma non ho mai avuto problemi penali. Mi considero un tipo deciso, non amo i condizionali e i mezzi termini. C’è in giro troppa gente che sa solo chiacchierare. Facile fare impresa con i debiti. Provaci con i tuoi soldi e poi ne riparliamo».
Gli italiani hanno paura degli albanesi. Perché?
«Perché la mia terra d’origine è l’hub della cocaina in Europa, dell’eroina dal Caucaso e delle armi in Asia. Però quattro mafie distinte - Cosa nostra, camorra, ’ndrangheta e Sacra corona unita - le ho viste solo in Italia».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 57 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.