Sergio Scalpelli, Europa 23/10/2013, 23 ottobre 2013
Il 23 febbraio del 2010, dovendo partecipare a un convegno sulla digitalizzazione dell’Italia, atterro a Roma alle 8,30, accendo il cellulare e trovo 7 chiamate del mio amico Nicola Porro
Il 23 febbraio del 2010, dovendo partecipare a un convegno sulla digitalizzazione dell’Italia, atterro a Roma alle 8,30, accendo il cellulare e trovo 7 chiamate del mio amico Nicola Porro. Un po’ stupito dall’ora lo richiamo immediatamente. Mi dice: «Meno male che mi hai chiamato perché il tuo cellulare staccato mi aveva fatto pensare al peggio». «Perché?», gli chiedo. «Ma non sai niente?». «No, ero in volo». E mi snocciola i fatti: c’è un mandato di cattura internazionale per Silvio Scaglia. Ovviamente, essendo io e Nicola abituati a fare spesso della cazzimma tra di noi, mi accerto che non stesse scherzando. Riattacco e comincio a cercare Stefano Parisi, amministratore delegato di Fastweb, il quale, essendo in roadshow, ha a sua volta il cellulare staccato. Cerco Giovanni Moglia, direttore degli affari legali: cellulare staccato. Cerco Alberto Calcagno, allora direttore generale, oggi amministratore delegato, che risponde però dopo alcuni squilli. Gli spiego cosa sta succedendo, mi permetto di segnalare che ritengo terminata la settimana bianca, rimango d’accordo di risentirci. Vado al convegno, chiedo di parlare per primo. Fino ad allora non era ancora uscita alcuna agenzia di stampa e nessuno sapeva nulla. Concludo l’intervento. Ringrazio, saluto e corro allo studio dell’avvocato Gildo Ursini. Di lì a poco Ursini ritorna e conferma la portata dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Aldo Morgigni. È l’inizio dell’incubo. Tre persone molto perbene, cari amici, agli arresti. Un bombardamento mediatico mostruoso, i titoli dei tg scorrono associando Fastweb, la ‘ndrangheta, la banda Mockbel. Ai miei amici Giuliano Ferrara e Gad Lerner che mi chiamano non riesco neanche a spiegare il perché degli arresti e della richiesta di commissariamento della società, allora quotata in borsa. Last but not least, abbiamo anche sentito l’attuale presidente del senato, Piero Grasso, straparlare di scempio della legalità, senza alcun distinguo tra criminalità organizzata e aziende sane e oneste che sono un patrimonio dell’Italia e che in quanto tali andrebbero difese. Avevamo appena concluso la pubblicazione di un libro sui 10 anni di Fastweb, l’unica impresa, insieme ad Omnitel, di alto valore tecnologico nata in Italia negli ultimi 25 anni (guarda caso, ambedue guidate da Silvio Scaglia). Non so quanto il lettore possa cogliere la dimensione di ciò che stava succedendo a Fastweb, un’azienda di 3.500 dipendenti, con altri 10mila occupati nell’indotto, un fatturato di 2 miliardi di euro, una capacità di innovazione e investimento costante negli anni. La minaccia di commissariamento è costata a Stefano Parisi prima l’autosospensione, poi le dimissioni per salvare la società. Le accuse a Stefano sono state archiviate. Non c’era nessun presupposto per applicare la legge 231, non aveva alcun senso inviare un commissario amministrativo a gestire un’azienda ad altissima complessità tecnologica. Appare palese oggi, a processo chiuso, ma a noi era chiaro già allora che è semplicemente demenziale che un gruppo di pm possa decidere della vita e della morte di una società, di un gruppo industriale. In ragione di un’inchiesta iniziata nel 2006, raccontata da la Repubblica nel gennaio 2007 in un articolo molto informato, improvvisamente tre anni dopo vengono arrestate persone che, come sappiamo, erano innocenti, sottoposte a un regime violento di custodia cautelare, i loro beni bloccati, le loro mogli e i loro figli senza i mezzi di sostentamento elementari. Mai dichiarazione fu più giusta di quella fatta da Silvio Scaglia nei giorni scorsi, quando ha ricordato quante persone restano in carcere in attesa di giudizio, senza reti di protezione e di relazione che consentano alle loro famiglie di sopravvivere dignitosamente. L’accusa riguardava l’evasione di Iva di 330 milioni di euro, che il processo appena concluso ha dimostrato essere stata fatta da società fittizie in nessun modo riconducibili a Fastweb o a Telecom Italia Sparkle. La sentenza di giovedì scorso ha dimostrato quello che le aziende avevano detto da subito, e cioè di essere vittime, non complici della truffa. Peraltro, dopo la pubblicazione dell’articolo di Repubblica, Fastweb sospese immediatamente il traffico telefonico, un’attività ordinaria per un’azienda di telecomunicazioni, e avviò una piena e totale collaborazione nelle indagini. Ed eccoci alla prima domanda: perché i pubblici ministeri, che indicarono come colpevoli i vertici delle società, non hanno tenuto conto dei rapporti della guardia di finanza e dei Ros che nel 2008 e 2009, nelle relazioni conclusive alla procura, avanzarono serissimi dubbi sul coinvolgimento dei vertici societari nella truffa? A chi è servito alimentare il teorema del “non potevano non sapere”? Forse perché senza il coinvolgimento dei vertici di Fastweb la notizia dell’inchiesta sarebbe finita in qualche trafiletto in fondo ai giornali, invece di guadagnare le prime pagine e le aperture dei tg per giorni? Forse perché in quel periodo c’era il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura cui era interessato il gip di quell’inchiesta? Forse perché bisognava scegliere il nuovo procuratore capo di Roma, carica per la quale concorreva il dottor Capaldo, titolare dell’inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle? Veniamo al nocciolo politico della questione: la vicenda Fastweb non può finire qui. Quello di Fastweb è un caso clamoroso di strumentalizzazione ai fini mediatico giudiziari per interessi corporativi e di carriera di singoli magistrati. È la dimostrazione che in Italia non c’è un tema di toghe rosse, ma c’è un serissimo problema di rendite corporative di pezzi della magistratura inquirente che usano spregiudicatamente la custodia cautelare e l’enfatizzazione mediatica delle inchieste per ritagliarsi spazi di potere. Peccato che giochino con le vite degli altri. Ai lettori di Europa, agli elettori del Pd vorrei dire questo: non è possibile che Berlusconi e le sue vicende giudiziarie siano un alibi. Il fatto che Berlusconi abbia avuto nel 2001 e 2008 maggioranze parlamentari “bulgare” e si sia occupato, credo su consiglio dei suoi brillanti avvocati, di produrre qualche leggina ad personam invece che un progetto organico di riforma della giustizia, dimostra solo che nei 20 anni buttati via da questo paese c’è anche stato l’uso strumentale delle vicende giudiziarie per regolare conti nella lotta politica. Ma la giustizia è profondamente malata: siamo al limite di una crisi verticale dello stato di diritto. È fuori dal mondo che la sinistra riformista non se ne occupi.