Alessandro Barbero, La Stampa 25/10/2013, 25 ottobre 2013
ALTRO CHE MAMELI E CARDUCCI LEGNANO FU LA DISUNITÀ D’ITALIA
L’Ottocento è l’epoca in cui ogni paese d’Europa ha deciso come raccontare la propria storia. I manuali scolastici, il romanzo storico, la pittura pompier hanno imposto una scelta di episodi considerati fondanti per l’identità nazionale. È allora che la battaglia di Legnano, da episodio di storia locale lombarda, si trasforma in un momento cruciale della storia d’Italia, una tappa dell’eterna lotta del valore italico contro l’invasore straniero. «Dall’Alpi a Sicilia - ovunque è Legnano» assicura l’inno di Mameli; generazioni di scolari hanno imparato a memoria La canzone di Legnano del Carducci, e tuttora i meno giovani fra noi ricordano «Milanesi, fratelli, popol mio!», «La primavera in fior mena tedeschi» e «Vi sovvien - dice Alberto di Giussano». Sui sussidiari delle elementari, il racconto della battaglia era illustrato dall’inevitabile quadro di Amos Cassioli, in cui il suddetto Alberto, con sul petto il teschio e le tibie della Compagnia della Morte, si scatena a fracassar tedeschi, mentre sul Carroccio squillano le trombe della riscossa. Altrettanto emblematico il monumento al Guerriero di Legnano, inaugurato a Pontida nell’anno 1900, e ancor oggi politicamente rilevante, anche se in modi non previsti a quell’epoca.
Il fatto che Alberto di Giussano sia stato inventato di sana pianta dal cronista trecentesco Galvano Fiamma, e che il giuramento di Pontida l’abbia inventato il Berchet (in una raccolta di romanze non a caso intitolata Fantasie), conferma semplicemente che quando, nell’Ottocento, le nazioni decidevano di costruirsi un passato non badavano a spese. Né si preoccupavano delle contraddizioni, perché allora avrebbero potuto chiedersi come mai la distruzione di Milano voluta dal Barbarossa nel 1162 sia stata eseguita con entusiasmo dagli abitanti di Lodi, Cremona, Pavia, Novara, Como, del Varesotto e della Brianza, e come mai in quegli anni i cronisti che esaltano le imprese del Barbarossa in Lombardia siano di Lodi o di Bergamo. La tentazione è forte, per lo storico, di spazzar via il ciarpame risorgimentale ricordando che Federico era il legittimo re d’Italia, regolarmente incoronato a Monza con la venerabile corona ferrea dei re longobardi; e che mezza Italia era d’accordo con lui quando si proponeva di mettere fine all’anarchia dei comuni e castigare l’arroganza di una metropoli divoratrice come Milano.
Sennonché, il Barbarossa era proprio tedesco; e questo finì per dar fastidio anche agli italiani di allora. Lui, bisogna dire, non fece molto per accattivarseli. Quando si accorse che gli scontenti erano sempre più numerosi, dichiarò che la ribellione non era solo contro la sua persona, ma contro «l’impero dei tedeschi, acquistato e finora conservato con molta fatica e molte spese e col sangue di molti principi». Lo slogan della Lega Lombarda, secondo lui, era: «I tedeschi non devono più comandare qui da noi». E’ vero che l’imperatore diceva queste cose in lettere dirette in Germania per chiedere rinforzi, ma son comunque dichiarazioni che avrebbero fatto la gioia del Berchet; e sono il primo motivo per cui i sostenitori italiani dell’imperatore cominciarono a chiedersi se non avevano scelto la parte sbagliata. L’altro motivo fu la scoperta che un governo capace di imporre un minimo di pace nel paese costava molto, e che dove comandava il Barbarossa bisognava pagare le tasse. Alla fine, anche le città più riluttanti preferirono convincersi che alla pace e al governo del territorio avrebbero provveduto molto meglio loro, ciascuna nel suo piccolo, e che giudici e funzionari imperiali, per di più tedeschi, erano un lusso di cui si poteva fare a meno.
Così nella Pianura Padana si cominciarono a cantare canzoncine contro i tedeschi, che quando parlano «sembrano cani arrabbiati»; il Papa, che aveva i suoi motivi per non desiderare un forte potere imperiale in Italia o altrove, diede la sua benedizione alla Lega; e cominciò a circolare l’idea che i veri italiani stavano da una parte sola. All’indomani di Legnano i milanesi diffusero un bollettino della vittoria in cui, dopo aver elencato l’immenso bottino catturato, aggiungevano con un tocco di genio propagandistico: «Tutte cose che non consideriamo nostre, ma vogliamo che appartengano in comune al signor Papa e agli italiani».
Tramontava così uno degli ultimi tentativi di trasformare l’Italia in un regno unitario, come stavano facendo alla stessa epoca i re di Francia, d’Inghilterra o di Castiglia. Oggi gli studiosi più attenti sottolineano che col Barbarossa quel tentativo era appena agli inizi, e forse sarebbe fallito comunque, perché l’imperatore anche prima che le cose cominciassero ad andar male non si dimostrava granché capace di costruire istituzioni e consenso, ma badava soprattutto ad arraffare risorse. Gli stessi studiosi sottolineano anche, non a torto, che i sudditi di altri re non erano particolarmente felici di pagare le tasse, come dimostra la saga di Robin Hood e del malvagio re Giovanni; per cui non è detto che dobbiamo invidiare ad altri paesi la precoce formazione di efficienti monarchie. Resta il fatto che paradossalmente, mentre Pontida e Legnano sono stati imposti nell’Ottocento come emblemi dell’unità italiana, in realtà la parabola del Barbarossa ci aiuta a capire come mai l’Italia non è mai diventata davvero un paese unito, fino al 1861 e forse neanche dopo.