Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 25 Venerdì calendario

“FORMIDABLEMENT CHIC” NELLA DISFATTA DI RUSSIA


«La guerra si combatte da una parte sola», diceva il conte Urbano Rattazzi, partito nel settembre ’41 come giovane ufficiale per la campagna di Russia, la più grande e disastrosa missione militare della storia contemporanea e uno dei principali errori strategici su cui Mussolini mise in gioco il destino del regime. Dei 229 mila italiani che dovettero affrontare, senza mezzi adeguati, un inverno tra i più rigidi, meno della metà tornarono. E solo 10 mila corpi, degli oltre 80 mila dispersi, furono restituiti alle famiglie.
Tra i superstiti, ci sono anche Rattazzi e Gianni Agnelli, che in guerra hanno fatto amicizia. È così, che al ritorno dalla Russia, il conte, a casa del futuro Avvocato, conosce la sorella Susanna, che sposa e da cui avrà cinque figli. Ora appunto Delfina, giornalista, scrittrice e quarta dei cinque, pubblica il diario e le lettere del padre (Urbano Rattazzi, Dal fronte russo 1941-42, Il Melangolo, pp. 139, € 15) che ricordano la sventurata missione a cui prese parte e lo straordinario destino di sopravvivenza che lo riguardò.
È uno dei rari e autentici documenti d’epoca, una testimonianza diretta e essenziale. Con un’appendice che le carte autografe non comprendono, ma che la figlia ha voluto egualmente raccontare, proprio per spiegar meglio che tipo era il padre. Fedele, appunto, al principio che la guerra si combatte da una parte sola, Urbano Rattazzi, diversamente dalla gran parte degli italiani che si trovarono da un giorno all’altro alleati dei loro nemici e nemici dei loro alleati, non accetta le conseguenze dell’armistizio dell’8 settembre 1943. E, reduce dalla Russia, si arruola nella X Mas del principe Junio Valerio Borghese. All’indomani della Liberazione, il 26 aprile 1945, la X Mas «si scioglie ma non si arrende», come spiega il principe ai suoi 700 marò radunati a Milano nell’atrio della caserma di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica). Con il Cln è stato raggiunto un accordo in base al quale, dopo aver consegnato le armi, gli uomini della X Mas avrebbero avuto garanzie di movimento e immunità. Ma Junio Valerio Borghese non si fida, si sente un bersaglio e cerca rifugio a Roma, dove approda il 30 aprile, vestito con una divisa da tenente americano, in tasca la pistola Walther con un colpo in canna.
Sarà Urbano Rattazzi a trovargli rifugio, presso la casa di un cugino, Emilio Menada, nei pressi della Stazione Termini. Il principe riuscirà anche a salvarsi da un’ispezione partigiana nascondendosi su un cornicione. «Mi piace questa storia, perché nel momento in cui il suo mondo si sta disintegrando, in cui sta per finire dalla parte sbagliata della storia, mio padre non prende in considerazione la propria sicurezza, ma quella del suo comandante», annota Delfina Rattazzi.
Urbano ha 23 anni, è un giovane aristocratico genovese colto, sportivo ed elegante, laureato in Giurisprudenza. Alla rinomata scuola di cavalleria di Pinerolo si è scoperto una forte passione per l’equitazione, che ne farà un apprezzato gentleman rider e un vincitore da record di coppe ai tornei. Ha avuto un’educazione raffinata, conosce bene il suo mondo, è un gran lettore di classici e di letteratura internazionale. Tutto questo emerge dal diario di guerra e dalle lettere dalla Russia. La Russia di Tolstoj e Gogol, come la definisce. L’impazienza tenuta a freno, per il fronte che non arriva mai. L’orrore per il «sudiciume di odore asiatico» delle case dei mugiki, il rifiuto di una mannequin-prostituta di presumibile scarsa igiene. La soddisfazione per un complimento - «Lo sa che lei è veramente elegante?» - rivoltogli da un superiore, e l’immediata, accurata descrizione del suo abbigliamento («Portavo scarponi neri da sci Vibram, gambali di tipo albanese della stivaleria Savoia, guanti di Worcester foderati in pelo di cammello - formidablement chic, parbleu»).
Quel che invece non si trova - e al contrario ci si aspetterebbe in un diario-testimonianza su una materia così tragica - è una descrizione più cruda delle fatiche e degli orrori della guerra. Ma il conte non soltanto è, si sente fino in fondo soldato: e non vuole indugiare su dettagli lacrimevoli. Lascia appena percepire la propria ammirazione per la perfezione strategica delle SS, per la forza dei loro mezzi, e l’insoddisfazione perché ai tedeschi tocca sempre la prima linea e agli italiani mai. Tranne una volta: quando, con raccapriccio del sottotenente Rattazzi, il suo capitano, nella nebbia, ordina all’improvviso di puntare e sparare. E si accorge troppo tardi di aver aperto il fuoco sui suoi stessi commilitoni.