Sergio Romano, Corriere della Sera 25/10/2013, 25 ottobre 2013
A CHE COSA SERVONO GLI INTELLETTUALI ITALIANI
Perché, quando si parla di intellettuali, si fa riferimento alla sinistra? Per molti, non per tutti per fortuna, è diventato perfino sinonimo: intellettuale uguale persona di sinistra; e più sono a sinistra più gli intellettuali sono di valore. Come se persone con un diverso orientamento politico non fossero all’altezza per le attività di pensiero. Basta essere di sinistra e anche un operatore ecologico, con tutto il rispetto per la categoria, può venir etichettato e vantato come un intellettuale; voglio dire che, sovente, l’etichetta viene appiccicata indipendentemente dal valore del pensiero espresso.
Giuliano Sassa
Milano
Caro Sassa,
È davvero così importante che siano di sinistra o di destra? La maggioranza della categoria mi sembra composta da persone che oscillano continuamente fra la provocazione e il conformismo, fra il desiderio di stupire e quello di fornire i propri servizi a un padrone generoso. La generazione cresciuta durante il fascismo rappresenta, a questo proposito, un esempio interessante. I suoi scrittori, artisti e giornalisti, erano stati allevati nei Guf (Gruppi Universitari Fascisti), avevano partecipato al Littoriali della Cultura, inviato quadri e sculture ai premi organizzati dai maggiori esponenti del regime, collaborato con Primato (la rivista di Giuseppe Bottai), partecipato alla realizzazione di film patriottici, chiesto e ricevuto favori e benefici. Molti diventarono antifascisti nella seconda metà del 1942, vale a dire nell’anno in cui le potenze dell’Asse cominciarono a perdere la guerra. Vi sono casi in cui l’ultimo articolo fascista di una giovane promessa del giornalismo italiano precede soltanto di qualche settimana il suo primo articolo antifascista.
Tutti ipocriti e opportunisti? Non sempre. I fascisti di sinistra speravano che Mussolini avrebbe fatto la rivoluzione e divennero comunisti perché erano, secondo una definizione di Giovanni Gentile, «corporativisti impazienti». Credevano nella «corporazione proprietaria», vale a dire in una forma di proprietà pubblica dei mezzi di produzione teorizzata dall’ala più radicale del partito; ed erano delusi dalla lentezza con cui il regime avanzava verso quell’obiettivo. Non fu difficile, per questi giovani «rivoluzionari», trasferire le loro speranze dal fascismo al comunismo. In molti casi, tuttavia, il loro passaggio all’antifascismo fu facilitato dalla politica culturale di Palmiro Togliatti. Il leader del Pc aveva bisogno di intellettuali organici e li assolse dai loro peccati fascisti accogliendoli paternamente nella casa madre del comunismo italiano. Paolo Mieli ha definito questa operazione «una assoluzione impartita al fonte battesimale di un partito politico». Mirella Serri ha scritto su questa vicenda un bel libro intitolato I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948 (Corbaccio, 2005). Da allora sono passati quasi settant’anni , ma alcuni caratteri del trasformismo intellettuale italiano sono sopravvissuti nelle generazioni successive.
Per concludere, caro Sassa, l’Italia ha bisogno di scienziati, filosofi, pittori, scultori, romanzieri, poeti, studiosi ed esperti delle più diverse discipline, non di intellettuali.