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 2013  ottobre 25 Venerdì calendario

IL MODERNO CENSORE CHE RISCRIVE I CAPOLAVORI


Infinite come le vie del Signore sono le vie della censura. Nel senso che, essendo tutti riluttanti per comune senso del pudore — è proprio il caso di dirlo — sia a chiamarla con il suo nome sia a istituire un apposito e sinistro organismo specificamente demandato ad esercitarla, si fa ricorso a surrogati vari partoriti dalla fantasia burocratica dei vari tempi e dei vari Paesi. Rientrano tutti, questi surrogati, nella categoria dei poteri amministrativi arbitrari, ma legalmente riconosciuti, così definiti dal giurista Julius Stone. Si sono verificati casi curiosi e a loro modo divertenti. Ad esempio in Australia, Paese un tempo di pochi libri autoctoni e moltissimi importati, la censura di fatto veniva esercitata brevi manu dalle Dogane, che semplicemente non facevano entrare i libri, a vario titolo e a loro insindacabile giudizio, riprovevoli.

Nel 1933 fu istituito l’Australian literature censorship board , cioè una censura di principio ed esplicita. Ma, nonostante il nome di ferro, lo scopo era esattamente l’opposto, cioè controllare e mitigare la poca delicatezza di quegli irreprensibili doganieri. Sopravvive ancor oggi, peraltro, sotto la pudica denominazione di Office of film and literature classification .
Non c’è da scandalizzarsi troppo. Ogni Paese democratico segue il principio illuministico della libertà di parola, ma lo colloca entro limiti legali pacificamente accettati. Che tendono a escludere l’incitamento alla violenza e al crimine, la violenza sessuale, l’abuso sui minori, la diffamazione, le discriminazioni violente e così via. Come ha osservato uno studioso contemporaneo, Michael Holquist, «essere favorevoli o contrari alla censura in quanto tale significa presupporre una libertà che nessuno ha. La censura c’è. Si può solo distinguere tra i suoi effetti più o meno repressivi».
Ciò detto in linea di principio, all’atto pratico fa una certa impressione che a bloccare due repliche di una versione teatrale di Lolita sia stata la Direzione territoriale del Lavoro di Bologna. Ente più che rispettabile, ma non versato, almeno a priori, né in drammaturgia né in letteratura. Questo della Direzione del Lavoro è senz’altro il più inventivo, molto più delle Dogane, dei surrogati della censura di cui prima dicevamo. Ma se si congiunge questa stravaganza all’altra relativa al fatto che lo spettacolo era passato indenne al vaglio delle consorelle Direzioni del Lavoro competenti per Verona, Napoli, Volterra e persino San Marino (per non dire dei rispettivi pubblici, nessuno dei quali si era scandalizzato), si ottiene un bel ritrattino dell’Italia censoria. Un Paese dove una pluralità indefinita di enti in una pluralità indefinita di luoghi si sentono intitolati a intervenire, anche pesantemente, su materie dove la loro competenza è assai opinabile, per non dire tirata per i capelli.
Memori degli Stati preunitari e sostanzialmente insofferenti dello Stato nazionale, gli italiani amano legiferare nel proprio cortile a loro libito. E, se del caso, anche censurare, o almeno provarci. Che di una pulsione censoria si tratti lo dimostra infatti non l’intento bacchettone di garantire la salute fisica e di salvaguardare la moralità della minore, cioè della undicenne interprete di Lolita , ma la bella idea di metter mano al testo e di riscrivere qua e là il copione dello spettacolo.
Il censore infatti, o l’aspirante tale, è un autore mancato e in quanto tale è mosso dall’irrefrenabile desiderio non tanto di distruggere, ma di fare bene, di fare meglio, di fare giusto, di fare come solo lui sa fare. Del resto Lolita sembra costruito apposta per mettere alla prova il censore, la sua pazienza, la sua tenuta nervosa e il suo amor proprio. Il poveretto infatti si trova di fronte a una provocazione, una specie di trappola nella quale finirà comunque per cadere.
Per un verso il soggetto è quanto di più scandaloso si possa immaginare: l’ossessione sessuale di un maturo professore per una dodicenne, fino al delitto e alla completa rovina. Scandaloso sia nel 1955, quando venne pubblicato in lingua inglese in Francia da un editore esplicitamente erotico, Olympia Press, e immediatamente confiscato dalla Dogana britannica per essere sequestrato l’anno successivo, 1956, anche in Francia. Sia allo stesso modo oggi, a quasi sessant’anni di distanza, in un’epoca ipersensibile alla pedofilia. Ma per un altro verso è un libro levigato e irreprensibile. Privo di appigli e di volgarità, scritto nella prosa aristocratica di un grande aristocratico. Soprattutto un’opera d’arte, destinata a rimanere come uno dei libri memorabili del Novecento. E proprio perché vera e non sedicente opera d’arte pone la domanda essenziale nella sua semplicità: si può censurare l’arte?
Povera Direzione territoriale di Bologna, è caduta nella trappola e, dovunque sia, Vladimir Nabokov, dall’alto degli oltre 50 milioni di copie vendute da Lolita a tutto il 2007, se la ride. O, molto meglio, sorride.