Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore 25/10/2013, 25 ottobre 2013
IL GRANDE ORECCHIO AMERICANO IN ASCOLTO DAI CAVI DI PALERMO
Centotrentunmilaseicentosettantanove. È il numero di chilometri di cavi di fibra ottica che, dopo aver attraversato il Mediterraneo, “atterrano” in Sicilia. In quei cavi passa il 100% delle telecomunicazioni non satellitari che escono dall’area strategicamente più delicata al mondo - Medio Oriente e mondo arabo. Non è un’esagerazione, né tantomeno un errore: il 100 per cento. In altre parole, qualsiasi telefonata, ogni messaggio di posta elettronica, qualunque allegato, video digitale o conversazione via web fatta su rete fissa che dal Medio Oriente si dirama verso il mondo occidentale arriva o passa di lì.
E secondo l’avvocato/giornalista americano Glenn Greenwald, depositario delle carte del cosiddetto Datagate, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno accesso a quei cavi. In effetti, che si tratti di un asset strategico di grandissima importanza lo sanno solo gli addetti ai lavori, poche persone che operano nel mondo delle telecomunicazioni e in quello dell’intelligence. Vito Gamberale e Gian Mario Rossignolo lo sono venuti a sapere solo nella primavera del 1998, quando erano rispettivamente direttore generale e presidente di Telecom Italia e un rappresentante dell’intelligence americana presentò loro una richiesta molto singolare: voleva accesso a quegli snodi-chiave della rete di cavi a fibra ottica che dalla fine degli anni ’80 aveva cominciato a collegare il mondo. «L’ingegnere Gamberale venne da me e mi spiegò di aver ricevuto una richiesta di accesso al nodo di Palermo da parte degli americani. Mi comunicò anche che intendeva darvi corso», ricorda Rossignolo in un’intervista telefonica. «Chiesi perché proprio il nodo di Palermo. Perché devo dire che allora non ne conoscevo la rilevanza. Mi fu spiegato che da lì transitavano tutte le comunicazioni del Medio Oriente. Mi resi a quel punto conto che dal nodo di Palermo passavano - e passano ancora - anche tutte le comunicazioni degli affari dell’Italia nei paesi del Golfo e nel Medio Oriente. E non vedevo perché si dovesse dare accesso a enti stranieri e permettere loro di operare sul nostro territorio. Perciò dissi a Gamberale che non avrei concesso l’autorizzazione a meno che non avessi avuto la richiesta di farlo dalle autorità politiche. E non mi riferivo solo al presidente del Consiglio, che all’epoca era Romano Prodi, ma anche il ministro della Difesa e quello degli Interni. "Me lo deve dire il governo", spiegai. Se me lo dicono obbedisco, altrimenti non se ne fa nulla». I ricordi dell’ingegner Gamberale sono appena leggermente diversi: «La richiesta a me arrivò da un nostro dirigente, venuto a parlarmi assieme a un funzionario esterno. Non ricordo chi fosse, ma era una persona con un ruolo istituzionale, la quale mi riferì della richiesta degli americani. Volevano evidentemente prima fare un passaggio di natura tecnica per conoscere le modalità. Ma era chiaro che la questione richiedeva una verifica politica. Non era certamente una decisione di natura manageriale ma di sicurezza nazionale, e quindi andava sottoposta agli organi di governo. Cosa di cui decise di farsi carico direttamente Rossignolo». Insomma, al di là di qualche dettaglio, le versioni dei due ex dirigenti di Telecom Italia coincidono pienamente. Ma come reagirono gli organi politici italiani di fronte a tale richiesta? «Era maggio o giugno del 1998, e io chiesi subito un appuntamento con Prodi. Lo incontrai nel suo ufficio a Palazzo Chigi e gli dissi: "Perché questo avvenga, me lo devi dire tu"». E cosa rispose Prodi? «Una risposta non fu data. Per cui decisi che la cosa non sarebbe stata fatta. Non so però cosa successe dopo, perché a ottobre a Palazzo Chigi andò Massimo D’Alema e io rassegnai le dimissioni da presidente di Telecom. Mi auguro che quella cosa non sia mai avvenuta». In un’intervista concessa a L’Espresso e pubblicata nel numero in edicola oggi, l’avvocato/giornalista Glenn Greenwald rivela però che l’intelligence anglo-americana è da tempo in grado di intercettare «i dati trasferiti da cavi in fibre ottiche sottomarini che hanno terminali in Italia». C’è da pensare che Greenwald parli con cognizione di causa, visto che è il depositario di tutte le carte che l’ex consulente della Nsa Edward Snowden, oggi rifugiato in Russia, ha sottratto all’agenzia di spionaggio elettronico americana. Già tempo fa, una fonte legata al mondo delle telecomunicazioni e dell’intelligence italiana aveva detto a Il Sole 24 Ore che l’accesso richiesto dai servizi americani all’epoca di Rossignolo e Gamberale «fu concesso tra il 1999 e il 2001, probabilmente nell’era di Colaninno». Ma non avevamo mai trovato una conferma ufficiale o documentale. Poiché il successore di Romano Prodi a Palazzo Chigi fu Massimo D’Alema, abbiamo chiesto all’ex primo ministro (che è stato anche presidente del Copasir) se gli sia stata rivolta la stessa richiesta dagli americani e, in quel caso, cosa abbia risposto. «Devo essere molto cauto nel rispondere perché tutta questa materia dei rapporti con servizi stranieri è coperta da segreto di Stato, come ha confermato anche la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Abu Omar. Detto ciò, posso invece dichiarare che nessun governo italiano, tantomeno quello da me presieduto, ha mai autorizzato gli americani a effettuare intercettazioni di cittadini italiani». Quando abbiamo fatto notare che la richiesta Usa avrebbe avuto una natura diversa, l’ex presidente del Consiglio ha tagliato corto: «Ho detto quello che posso dire. Non mi piace violare le leggi dello Stato». Come detto, le anticipazioni di ieri fanno però supporre che le carte di Snowden di cui Greenwald ha parlato all’Espresso confermino il fatto che l’accesso sia stato a qualche punto concesso dalle autorità politiche italiane. Il Sole 24 Ore ha provato a ottenere una conferma da fonti istituzionali, ovviamente invano. Chi sa non è infatti autorizzato a parlare. Un’importante fonte istituzionale del settore ha solo reiterato l’assicurazione di D’Alema: «Agli americani non è mai stato concesso di intercettare i telefoni degli italiani». Ma è chiaro che nessun governo concederebbe mai una cosa del genere. Il punto è capire se i nodi di telecomunicazioni siciliani siano stati "aperti" agli americani o agli inglesi. «Bisogna stare attenti a non confondere la sicurezza con lo spionaggio politico», tiene a sottolineare l’ingegner Gamberale. «In quel nodo arrivano i flussi del Nord Africa e del Medio Oriente, quindi è una questione di sicurezza. Tutt’altra cosa è un eventuale spionaggio politico, che di sicuro non passa per Palermo. Lì passano invece flussi vitali per la sicurezza dell’intero mondo occidentale». Insomma, "aprire" quel nodo a chi ha maggiori capacità di analisi e selezione, come sono inglesi e americani, potrebbe essere di interesse anche per la nostra sicurezza nazionale. Non solo: nel settore dell’intelligence contano solo due cose, le capacità e i rapporti. E di solito sono le capacità a favorire i rapporti. Il rapporto che conta più di qualsiasi altro è quello con la massima potenza mondiale, gli Stati Uniti. Nessuno può ambire a scalzare la Gran Bretagna e gli altri tre paesi anglofoni - Canada, Australia e Nuova Zelanda - che costituiscono il primo cerchio di amici degli Stati Uniti nel campo della cosiddetta SigInt, l’intelligence delle telecomunicazioni. Ma la stessa fonte istituzionale ci ha rivelato che l’Italia è nel cerchio immediatamente successivo. Davanti a Francia e Germania. E cosa ha da offrire di speciale l’Italia? Fino alla caduta del Muro di Berlino, c’erano le basi, sia militari che non. Dopo, i nodi siciliani avrebbero costituito un boccone ancora più succulento. Il problema è che un accesso del genere sarebbe incontrollabile. «Con tutte le cose riservate che riguardano un Paese, chi mi assicura che il nodo sia usato solo per difesa e antiterrorismo?» conclude Rossignolo. «Io non sentivo di poter dare quella garanzia».