Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 25 Venerdì calendario

VIAGGIO ALLA PIRAMIDE TRA LE STELLE PER STUDIARE LA TERRA

L’umanità, quando prova a salire a piedi sopra i 5 mila metri, si divide in due: quelli ai quali basta il poco ossigeno che si succhia nell’aria sottile e gli altri che invece boccheggiano come pesci sulla battigia. Questi ultimi camminano a testa bassa guardandosi i piedi, per vedere se uno passa ancora davanti all’altro, e si fermano spesso appoggiandosi a ciò che capita a tiro. I primi invece guardano in alto e ammirano le vette. In realtà c’è anche un terzo gruppo che si muove a quelle quote: gli sherpa. Ma loro, sopra i 5 mila metri, sono più vicini agli dei delle loro montagne che agli occidentali che si trovano al loro fianco. A quell’altitudine, sul versante nepalese della catena dell’Himalaya, deviando a sinistra dal sentiero che porta al campo base dell’Everest, dopo il villaggio di Lobuche, c’è la Piramide del Cnr, base di ricerca scientifica più alta del pianeta.
Si chiama anche Share, «condividere» in inglese, che deriva da Station at High Altitude for Research on the Environment. Non è un posto fuori dal mondo; è sopra: una delle poche cose del nostro Paese che svetta. Lì si raccolgono dati e si studia ciò che accade a uomini e pianeta. Ci lavorano ricercatori di università ed enti che provengono da tutto il mondo e si occupano degli studi più avanzati su clima, geologia, medicina, biodiversità animale e vegetale. L’hanno voluta Ardito Desio e Agostino Da Polenza che riuscirono a convincere il governo italiano, nel 1989, della bontà di un’operazione visionaria, per usare un eufemismo. «In verità», ricorda Da Polenza, «l’idea di una “bella tenda di vetro a 5 mila metri”, come la chiamò lui, venne al giornalista Mino Damato, che era con noi mentre stavamo rifacendo le misurazioni sull’altezza del K2 in Pakistan». Parte dei finanziamenti li mise il Cnr, altri li raccolsero Desio e Da Polenza, che fondarono il Comitato Ev-K2-Cnr e presentarono la «bella tenda di vetro» alla Fiera di Milano. Fu un successo, ma l’allestimento sulle pendici del tetto del mondo si presentava più arduo che in mezzo alla Pianura Padana.
In un primo momento la Piramide doveva essere sistemata in Cina, vicino a Rongbuk, campo base dell’Everest sul lato tibetano, che offriva il vantaggio di essere raggiungibile da una strada, ma la mattanza a piazza Tienanmen convinse l’Italia a cambiare versante e ad accettare l’accoglienza offerta dal re del Nepal. La località definitiva venne individuata da Giampietro Verza, guida alpina, amico di Da Polenza e organizzatore instancabile, che si trovava in zona per preparare la scalata del Pumori, una montagna che sembra essere stata messa lì dopo la Piramide, tanto ne riproduce la forma e la incastona in una scenografia da Guerre stellari. «Mi avevano detto che serviva un posto attorno ai 5 mila metri e con approvvigionamento idrico comodo». Dopo alcuni sopralluoghi, dall’Italia partirono otto container con tonnellate di materiale: via nave da Genova a Calcutta. Da lì con i camion fino a Kathmandu, poi a Jiri, dove finisce la strada e dove cominciò un’avventura che non si sa ancora adesso come sia potuta andare a buon fine: tonnellate di vetro, alluminio, cavi e longaroni lunghi fino a 16 metri che salgono da 1.500 a 5 mila metri a passo d’uomo, su un tapis roulant fatto da centinaia di portatori e yak. Che peraltro a un certo punto incrociano braccia e zampe perché la loro agenzia si era dissolta nel nulla. «Avevamo materiale sparso in tutta la valle, abbandonato », ricorda Verza. «Poi trovammo una nuova agenzia che riprese il trasporto. Era l’estate dell’89 e iniziavano le piogge monsoniche. Mi ricordo che c’erano rotoli di cavi elettrici speciali forniti dalla Pirelli che, a malincuore, decidemmo di tagliare a metà visto che 60 kg ci sembravano un carico impensabile per i portatori, con tutti i problemi di doverli poi giuntare di nuovo. Inutile: gli sherpa ne mettevano uno sopra l’altro prima di caricarseli sulle spalle. In quel momento ho capito che questa gente è speciale, e che avrei avuto molte cose da imparare da loro».
Verza ormai è diventato un po’ nepalese, si vede dal sorriso pacifico, e lavora con un team di giovani locali con i quali garantisce il funzionamento di questo laboratorio sul tetto del mondo, che raccoglie e trasmette dati 365 giorni all’anno, anche alla Nasa. «La cosa affascinante», spiega questo Fitzcarraldo d’alta quota, «è che qui tutto dipende ancora dagli uomini. Ci sono altre basi di ricerca scientifica in luoghi estremi, per esempio in Antartide, ma là tutto dipende dalla tecnologia, a cominciare dai rifornimenti che sono legati ai voli di aerei ed elicotteri». Alla Share, invece, fantascienza e Medioevo continuano a convivere. Ci sono strumenti sofisticatissimi, in grado di rilevare, per esempio, che la placca tettonica indiana si sta spostando di 0,11 millimetri al giorno verso nord-est, infilandosi sotto quella asiatica, ma il loro funzionamento dipende da una colonna di uomini e yak, che si muove in questa valle esattamente come avveniva secoli fa e offre garanzie, e costi, che sbaragliano quelli di qualsiasi elicottero. Alle pendici dell’Everest, in pochi minuti, il cielo terso può trasformarsi in un sipario di nubi e nebbia e non c’è velivolo al mondo, per quanto potente e sofisticato, in grado di attraversarlo. È per questo che nei giorni scorsi, per sostituire il «motore verde» della Piramide, il sistema di moduli fotovoltaici e batterie che fornisce energia, ci si è affidati alla premiata ditta di portatori e yak.
L’operazione è iniziata oltre un anno fa ed è stata pensata e gestita da Cobat (Consorzio nazionale raccolta e riciclo), che nel 2002 aveva già effettuato un primo smaltimento di batterie. Quelle nuove sono state donate da Fiamm, mentre i moduli fotovoltaici sono stati offerti da VipiemmeSolar. «Sono stati realizzati su misura per seguire la forma della facciata triangolare e con una configurazione elettrica ad hoc in grado di garantire elevate prestazioni energetiche anche in condizioni estreme come quelle in cui è inserita la Piramide», spiega l’amministratore delegato Alberto Volpi. «In più si è usato un vetro più spesso, temprato e prismato, in grado di proteggere la cella solare da eventi atmosferici che a 5 mila metri possono essere devastanti. Facendo un confronto, i moduli della Piramide hanno un costo attorno ai 2mila euro a kw, mentre quelli standard non superano i 700 euro». Ne sono stati portati su 120, pesanti una tonnellata e mezzo, oltre a un numero corrispondente di batterie al gel (altri 8 mila chili da issare su per la valle del Kumbu) che sono state scelte perché meno pericolose per l’ambiente in caso di eventuali rotture accidentali. Finita la salita, è poi iniziata la discesa, dato che bisognava smaltire i vecchi pannelli e le batterie, con le dovute cautele per l’ambiente. Visto che in questa disagevole parte del mondo non si butta via niente, 40 batterie e 48 pannelli ancora funzionanti sono stati portati e donati al villaggio di Dingboche. «Questa spedizione non va vista solo sotto il profilo logistico e tecnico, che sicuramente non va sottovalutato, date le difficoltà ambientali», spiega Giancarlo Morandi, presidente del Cobat, «ma anche come un esempio: se è possibile recuperare e riciclare in modo corretto moduli fotovoltaici e batterie qui sopra, perché non dobbiamo farlo dove è molto più semplice?». Morandi, forte dei suoi 73 anni vissuti da montanaro, ha seguito, è il caso di dire passo dopo passo, tutta la spedizione.
Una volta arrivati alla Piramide, anche per la fatica che si investe nell’impresa, si capisce di essere in un posto speciale dove si fanno cose speciali. Scienza e alpinismo, mondi tra loro lontani, hanno imparato a muoversi insieme, senza fare passi falsi, perché su quelle montagne il pallino è sempre in mano alla natura. L’Everest, per esempio, non ha voluto saperne di tenersi in groppa la stazione meteo che era stata piazzata due anni fa a Colle Sud, a 8 mila metri, e che aveva trasmesso alla base dati sorprendenti come temperature superiori allo zero. Dopo qualche mese la montagna se l’è scrollata di dosso. Ricercatori e guide, italiani o sherpa che siano, hanno dimostrato di poter stupire il mondo. Anche troppo, come è accaduto quando il sistema di rilevamento sismico, piazzato a poche centinaia di metri dalla Piramide, dimostrò di essere in grado di rivelare anche i test nucleari di Cina, India e Pakistan. Un ricercatore lo riferì in un convegno, mostrando i dati. Apprezzamento venne espresso dall’Aiea (Agenzia internazionale energia atomica) e dal Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization), che mandarono propri ispettori per acquisire altri dati. Cina, India e Pakistan la presero diversamente e il governo nepalese, in veste di vaso di coccio, decise bene di imporre il rapido smantellamento della stazione.
Adesso, forse, dopo diversi anni, è venuto il momento di ritentare. Oltre agli innumerevoli studi sulla fisiologia, e sulle reazioni del corpo umano in quota, ci sono stati quelli sull’inquinamento in altitudine, che hanno lasciato il mondo a bocca aperta: tre anni fa nella stagione premonsonica, gli inquinanti che compongono la Asian Brown Cloud, la nube marrone che ricopre le pianure indiane e del sud Asia, era arrivata fino alla Piramide e anche sui ghiacciai superiori, accelerando il loro processo di scioglimento. Poi ci sono decine di altri studi meno noti, anche nel campo del sistema nervoso e della psicologia. Uno scienziato americano è stato in Piramide settimane per mettere a punto una ricerca promossa dalla Nasa e dall’aviazione civile Usa per misurare lo stress di piloti e astronauti, che in volo sono in una condizione parallela a quella degli alpinisti sulle pareti dell’Everest, non riproducibile in alcun laboratorio. Dalla radio della Piramide si collegava con gli scalatori in parete, registrava la conversazione con loro e la confrontava poi con quella che aveva effettuato prima che partissero per la scalata. Everest permettendo.