Francesco Pacifico, IL 24/10/2013, 24 ottobre 2013
GIONI, L’ARTE E I DISEGNI SUI TAVOLI
Ha trentanove anni, dal 2006 vive a New York dov’è uno dei tre direttori del New Museum di New York, ma torna spesso a Milano dove lavora come direttore artistico per la Fondazione Trussardi, che è a un passo dalla Scala. È qui per la mostra di Allora & Calzadilla – giovane duo cubano-americano – ospitata a Palazzo Cusani fino al 24 novembre, viene da New York, porta una camicia azzurrina perfettamente stirata. Ci sediamo a un ristorante a bere caffè e quando accendo il registratore gli domando come vola.
GIONI
Con l’aereo, ah ah... La classe di viaggio vuoi sapere? O economy o business, dipende. Per esempio: questo è un viaggio breve, domani vado a Beirut quindi sono arrivato in business. Se devo lavorare moltissimo il giorno in cui arrivo viaggio in business, altrimenti in economy. Io ho due lavori principali che sono Trussardi e New Museum e poi ci sono altre cose di cui mi occupo, dipende a cosa sto lavorando, alcuni li pago io altri sono conti spese... Per me – e questo lo dico non perché mi stai registrando – se devo scegliere se mettere i soldi in una mostra o mettere i soldi sul mio conto tristemente li metto nella mostra...
INTERVISTATORE
E a Beirut che vai a fare?
GIONI
Vado perché sto lavorando per New Museum a una mostra sul mondo arabo per l’estate prossima. Vado lì a fare ricerca...
INTERVISTATORE
Come funziona il «fare ricerca»? Tu arrivi lì e dove ti portano?
GIONI
Per me fare ricerca significa in sostanza farsi mandare dossier, portfolio di artisti che non conosco – ogni volta che vedo il nome di un artista per me nuovo me lo segno e poi faccio chiedere o trovare la galleria –, trovare un contatto con lui. Se mi interessa cerco di incontrarlo e di vedere direttamente il suo lavoro. Ho continuato a raccogliere questi dossier e adesso vado a Beirut. Ho fatto una prima scrematura quindi vado a parlare con artisti di cui ho già visto il materiale che mi interessa. Guarda, non ho portato lo schedule, ma più o meno sono una decina di studio visits al giorno. Poi ho appuntamenti con curatori di lì, gente che dirige e organizza musei e mostre localmente.
INTERVISTATORE
Come ti trattano quando vai?
GIONI
Questo è un viaggio organizzato da me, mi aiuta economicamente un collezionista che è là, m’invita e paga il volo. A me piace organizzare personalmente i viaggi. Per un curatore che fa ricerche ci sono due tipi di trasferte che puoi fare: uno è quello organizzato da un’istituzione locale, per esempio un museo, ma ormai i musei non hanno molti soldi quindi a invitarti sono di solito quei consorzi, quelle fondazioni statali che si occupano di promuovere la cultura. Ma molti di questi – generalizzo – di solito hanno accesso a una fetta molto specifica del mondo dell’arte locale, un po’ troppo riconosciuta ufficialmente, quindi non mi piace molto viaggiare in questo modo. Cerco di viaggiare il più possibile indipendentemente, organizzando io stesso la trasferta e poi cercando magari un supporto finanziario per non gravare sul museo o sulle istituzioni. Dopo le varie “Primavere” è di moda organizzare mostre sul mondo arabo. Io di solito raccolgo grandi archivi di materiali che continuo a guardare, e poi più o meno seleziono e l’esposizione prende forma. Accanto al lavoro di ricerca sulle opere e sugli artisti c’è di solito un lavoro di ricerca più libresco, sui Paesi, sulla letteratura: la maggior parte di questo lavoro lo porto avanti con un team di persone e specialisti, per creare una specie di “scheletro” o allineare una serie di strumenti interpretativi.
INTERVISTATORE
Queste sono anche cose che hai detto sulla tua Biennale. Come nasce questo approccio?
GIONI
Mah, sai, è un processo di affinamento e di perfezionamento del mio lavoro di curatore. Il curatore è colui che fa le mostre, per dirla in soldoni, e nel mio lavoro ci sono due filoni principali. Uno è quello delle personali, la mostra di un artista, che in un certo senso è quello che più facciamo a Milano con la Fondazione Trussardi: qui per ogni mostra (1) non solo scegliamo un artista diverso, ma anche un luogo diverso e quindi si lavora a costruire l’esposizione in modo che il luogo e le opere si arricchiscano e si complichino a vicenda. Poi c’è l’altro filone che diciamo è quello delle mostre di gruppo e che, piano piano, da una decina, quindicina d’anni si sono delineate sempre più, almeno per quanto mi riguarda, come mostre di “cultura visiva”, cioè mostre di arte contemporanea in cui il focus principale è sì l’arte contemporanea, ma l’arte messa in dialogo con altre forme di cultura visiva come per esempio, alla Biennale, il libro di Jung, i fumetti di Crumb e tanti vari modi di esprimersi attraverso le immagini, nella speranza che in questo grande calderone di immagini uno capisca qual è il ruolo e la posizione dell’immagine nella società in cui viviamo, che è sempre più inquinata dalle immagini. Quindi le mostre di gruppo sono come volumi nello spazio nei quali lo spettatore entra per capire delle cose non solo sull’arte contemporanea, ma anche sulla cultura in generale.
INTERVISTATORE
Quali sono le forme di corruzione nel mondo dell’arte?
GIONI
Purtroppo c’è molto sospetto nei confronti dell’arte contemporanea, la gente pensa sia un complotto giudaico-plutomassonico o una specie di grande truffa. La corruzione ci può essere se uno fa una mostra di un artista invece che di un altro e per fare quella mostra si fa dare la “stecca” dal gallerista. Non si fa, io non lo faccio e chi lo fa è un farabutto e dovrebbe essere radiato da un ipotetico albo dei curatori. Io, per dire, al New Museum devo dichiarare se acquisto o se ricevo opere d’arte in regalo da chiunque, così che si possa controllare se faccio la mostra di un tale artista perché ho ricevuto un regalo...
INTERVISTATORE
Quindi praticamente loro sanno che opere ti vengono regalate?
GIONI
Sì, però purtroppo non me ne vengono regalate molte.
INTERVISTATORE
E perché non te ne vengono regalate molte?
GIONI
Mah, perché è cambiato anche il mondo dell’arte... Non lo so... Un tempo c’era l’artista e un’economia che forse era più ruspante... E poi perché le opere dei giovani artisti ora cominciano a costare di più, e perché non è neanche consuetudine per il critico chiedere le opere in regalo, diventa spiacevole...
INTERVISTATORE
Ma tu compri?
GIONI
In realtà in casa non tengo nulla.
INTERVISTATORE
Hai fatto il liceo in Canada, come funziona lì?
GIONI
Sì, ho fatto gli ultimi due anni del liceo in Canada... Io sono nato a Busto Arsizio e ho studiato lì, stavo facendo il liceo classico e ho vinto una borsa di studio in queste scuole che si chiamano “Collegio del Mondo Unito”. Era una scuola piuttosto inusuale perché oltre agli studi erano previsti servizi sociali e ambientali. Lavoravo con questa ragazza di 30 anni che non parlava e non camminava... Poi lavoravo con i paraplegici con cui facevamo canoa e kayak... Con i bambini... Si facevano anche lavori di environmental consciousness, quindi il riciclo della nostra spazzatura e così via... Dopodiché sono tornato in Italia, a Bologna.
INTERVISTATORE
E come è stato il passaggio dal Canada a Bologna?
GIONI
Studiavo a Vancouver Island ( 2 ), che è un’isola piuttosto grande di fronte alla città di Vancouver. Un luogo bellissimo ma anche isolato, il nostro campus era in mezzo alla foresta... Ma avevo voglia di tornare, perché l’America mi sembrava un po’ troppo vasta. A Bologna è stato molto bello, anche quello una specie di campus a ciclo aperto... Da ragazzino ero un po’ “alternativo” e andare a Bologna che è culla dell’alternativismo italiano ha avuto un effetto quasi opposto su di me... Cioè, non opposto, ma mi sembrava che ci fosse sin troppo «perdigiornismo» e ho avuto una specie di fase «Stakanovista-iperstudioso»...
INTERVISTATORE
Quando hai deciso di fare Storia dell’arte?
GIONI
Quando ero in Canada già mi interessavo di arte. Ma non pensavo che si potesse campare di arte contemporanea, quindi ho pensato di studiare Storia dell’arte. Il piano era di mantenermi come insegnante di Storia dell’arte e di coltivare l’arte contemporanea come una passione. Ho iniziato durante l’Università, lavoravo in varie case editrici ricoprendo diversi ruoli come l’editor e il traduttore, ero un freelance. Ho tradotto molto per Rizzoli. In nero, traducendo per conto di un traduttore che aveva troppo lavoro, ho iniziato così. La cosa più divertente dal punto di vista dell’aneddotica è che ho tradotto gli Harmony ( 3 ) per un annetto, traducevo romanzi rosa. Insomma, mi mantenevo facendo lavori vari nell’editoria... E quindi da li ho anche avuto diciamo un’entratura diversa nel mondo dell’arte, perché comunque sapevo un mestiere, che era quello di tradurre nel campo editoriale... Tra l’altro, con questo amico che aveva un service abbiamo iniziato una rivista online di cultura, una rivista di letteratura e arte che si chiamava trax.it. Purtroppo non esiste più online... [ne esistono alcune pagine sparse, non la nome page, nda].
Sembra una stupidaggine, ma era l’inizio di Internet, potevi trovare l’indirizzo di un curatore inglese o di un artista e scrivergli... Io ho sviluppato un piccolo network di contatti e poi Flash Art ( 4 ), la rivista italiana, è venuta a conoscenza del mio lavoro e quando ho finito l’università e il servizio civile sono andato a lavorare lì...
Con la rivista online volevamo fare qualcosa che non c’era. All’epoca c’era salon.com, la rivista letteraria, e noi volevamo fare una specie di Salon in italiano. Era assurda una cosa del genere, molto incentrata sull’Italia e tutta in italiano. E retrospettivamente era anche una stupidaggine perché non si sfruttava il fatto che fosse su Internet, però avevamo l’impressione di fare qualcosa di vagamente pioneristico. Era anche un hobby, lo facevamo il fine settimana perché durante la settimana lavoravamo a battere traduzioni, il lavoro più alienante dell’industria culturale. E il fine settimana facevamo lo stesso le cose che ci piacevano... C’era un aspetto di ossessività che alla fine magari ha anche ripagato. All’inizio cercavo di resistere all’idea che dovessi completamente rinunciare a una sfera privata, ma forse la cosa più sana e migliore è vivere in una situazione in cui vita privata e lavoro siano la stessa cosa... Alla fine da meno frustrazione, da più felicità.
Flash Art è pubblicato sia in italiano che in inglese e io sono andato a New York nel 1999 a lavorare alla versione in inglese...
INTERVISTATORE
E com’era New York nel 1999?
GIONI
Per certi versi è come ora, però retrospettivamente era ancora un po’ la New York di un tempo, un po’ più ruvida... Chelsea, che ora è solo gallerie, stava non dico iniziando, però c’erano ancora gallerie a Soho, dove adesso non ce ne sono più... Era un po’ meno gentrified... Sai, la New Economy iniziava in quel momento li, quindi era un po’ più diversa... Adesso sembra sempre più una versione “sanitizzata” di se stessa, però è sempre bellissima... C’era ancora Giuliani... (5) Non c’erano più i segni di quello contro cui Giuliani aveva lavorato, perché Giuliani se non sbaglio si insediò nel 1993 e in sei anni aveva cambiato tantissimo, però rispetto a quello che vedi oggi era ancora un po’ più... Per esempio Alphabet City, dove io vivevo quando sono andato a New York, perché il mio stipendio era abbastanza irrisorio, ospite in una situazione da ragazzo alla pari, vivevo nell’East Village... Poi nel 2006 abitavo ad Alphabet City ed era già cambiata...
INTERVISTATORE
E la tua situazione di ragazzo alla pari?
GIONI
Allora, io ci ho vissuto la prima volta nel 1999 e questa critica d’arte che si chiama Roselee Goldberg, una signora che si è occupata tutta la vita di performance ed è quella che qualche anno fa ha fondato la Biennale a New York che si chiama Performa, che è una Biennale solo di performance... E lei aveva questa cosa per la quale ospitava giovani curatori o critici a casa propria, dove viveva con il marito e due bambini, li ospitava per un paio mesi, mentre uno si cercava casa... C’era una piccola stanzetta nella casa e in cambio si aiutava lei e la famiglia. Io sono rimasto tre anni [ride, nda]. Che significa? Che o sono un bravo ospite o sono una sorta di paguro! Lei è stata molto generosa, io la aiutavo nelle sue ricerche e tenevo un occhio sul figlio adolescente...
INTERVISTATORE
Quindi sei stato caporedattore di Flash Art prima dei 26 anni?
GIONI
Se tutte le date sono giuste sono andato a 25 anni più o meno... a 24/25 sono andato in Italia, poi un annetto o due e sono diventato caporedattore e sono andato in America...
INTERVISTATORE
Non so se si può rispondere, ma non sembrava strano che tu fossi diventato caporedattore di Flash Art a ventisei anni?
GIONI
Ho fatto le cose cosi presto per il terrore di aver fatto una scelta che potenzialmente, dal punto di vista professionale, era suicida, ovvero l’idea di andare a fare Storia dell’arte... Cioè, non è che vengo da una famiglia benestante... Ho vissuto l’università con la paura più o meno conscia che alla fine sarei finito disoccupato, quindi ho cercato di fare il più possibile durante l’Università per non essere disoccupato e quindi facevo tutti questi lavori, lavoretti, scrivevo le tesi... Era un modo sia per mantenermi che per dire «devo imparare di più», quindi anche questo aspetto, che è l’aspetto più terribile dell’industria culturale editoriale, ovvero che fai il freelance e devi accettare più lavori possibili per andare avanti, era un motore non di chissà quale ambizione, ma perché sennò sarai disoccupato e non potrai guadagnare abbastanza... E così è stato per tanti anni, fino a quando sono riuscito a mantenermi con la mia professione, quando ho iniziato con la Fondazione Trussardi, cioè dal 2003...
INTERVISTATORE
Con Flash Art no?
GIONI
No, dovevo comunque fare altre cose, vivere in casa di altri...
INTERVISTATORE
Sono motivazioni di cui si parla poco: quando si vede una persona che è “riuscita” non si pensa a quanto viene prodotto dalla paura...
GIONI
Sì sì. Anzi, si pensa: chissà quale scorciatoia ha preso... O che dipenda dalla fortuna. Il tirocinio in editoria è stato importante per svegliarmi. A Flash Art in Italia non mi sentivo di avere una posizione di potere, anzi, la cosa importante è non avere mai l’impressione di essere arrivato da qualche parte. Mi sono detto: «Voglio andare a New York per vedere se sono capace di farlo anche lì».
INTERVISTATORE
Ma tu eri ambizioso o no? Tutta questa cosa l’hai fatta un gradino alla volta o sempre pensando di voler arrivare a realizzare una cosa enorme o alla Biennale?
GIONI
Mah, sulla Biennale, anche se sembra una cosa orribile da dire, qualche pensiero l’ho fatto... All’inizio pensavo che sarebbe stato bellissimo farla, poi mano a mano ci ho fatto qualche pensiero più chiaro...
INTERVISTATORE
Critiche e maldicenze come funzionano nel tuo mondo? Sono pervasive, ti colpiscono?
GIONI
Mah, di maldicenze ce ne sono probabilmente tante, ma se sei integerrimo non credo ti tocchino. A me fa arrabbiare molto quando mi sento misunderstood, non la malignità ma quando mi si appiccicano cose che non mi appartengono...
INTERVISTATORE
Tipo?
GIONI
Tipo... Sai, perché magari ho anche raggiunto un certo livello di successo e alcuni danno per scontato che questo successo venga da una preferenza per un certo tipo di mercato o di economia o da un certo tipo di familiarità con il mondo miliardario... È chiaro che ho una familiarità... Quando fai un certo lavoro, ed è un lavoro in cui la parte dell’economia è stratosferica, è ovvio che vieni in contatto, conosci e hai una visione dall’interno di un mondo di miliardari e di miliardi, e l’idea che io sia necessariamente complice o espressione di quel mondo mi sta antipatica, anche se ci sono collezionisti o artisti che appartengono a quel mondo ma che non sono espressione di quei valori che la gente associa a quell’ambiente... Magari ti dicono che tu sei la voce di quel tipo di entertainment cosmopolita... Mi sta antipatico perché non mi sento di essere questo. E non è neanche una maldicenza, è semplicemente che ormai il mondo dell’arte è anche un mondo che a volte si sovrappone a una superfinanza globale di cui non mi sento ne complice ne partecipe, ed è difficile spiegare quali sono le differenze...
INTERVISTATORE
Quali sono i posti di quell’ambiente lì in cui non pensavi di finire? Cioè, non dico l’ambiente dell’arte perché è una cosa che potevi desiderare, ma non so, barche, panfili...
GIONI
Sai, innanzitutto qualsiasi cosa ora ti dica potrebbe venire usata contro di me [ride, nda]... Be’, andare su un aereo privato è una cosa strana, però non significa né che sono un venduto, né che abbia rinunciato ai valori in cui credo, né che la persona che possiede quell’aereo privato è necessariamente un filibustiere o un pezzo di merda. Il curatore ha un ruolo strano ed è anche una specie di ambasciatore nel mondo dei media e così via... Lavorando per Trussardi capita che sono su Vogue e allora c’è questa immagine del curatore che vive una vita da jetsetter...
INTERVISTATORE
A che ora vai a dormire?
GIONI
Mah. io purtroppo dormo troppo, cosa che mi sta sul cazzo a morte [ride, nda]. Dormo sette ore a notte, cerco di dormirne sei. Io invidio chi può dormire poco. Argan ( 6 ) pare che abbia scritto la sua Storia dell’arte. mentre era sindaco di Roma, svegliandosi tutti i giorni alle quattro.
INTERVISTATORE
E riesci a uscire la sera o arrivi distrutto?
GIONI
No, ma sai quello che voglio fare la sera è o andare a vedere mostre o... Poi dipende, io inizio, mi sveglio, faccio un po’ di lavoro, poi sbrigo la posta... Al New Museum (7) vado alle 10, io mi sveglio tra le 6.30 e le 7 e quelle ore lì le dedico soprattutto alla Fondazione, perché loro sono già svegli e io sono a New York, quindi faccio la posta e sbrigo tutto ciò che ha a che fare con la Fondazione, poi verso le dieci vado al New Museum e fino a quell’ora non accendo neanche il cellulare a meno che non debba parlare con l’ufficio. Il problema della vita di ufficio è che richiede appuntamenti per fare qualcosa, soprattutto in America c’è la cultura dell’appuntamento, che io detesto. Quindi gran parte del mio lavoro lì è cercare di sottrarmi a questi appuntamenti [ride, nda] per poter lavorare e organizzare le mostre, scegliere le opere, disegnare la coreografia delle esposizioni... Poi alle 6 di solito vado a vedere mostre perché tra le 6 e le 8 ci sono inaugurazioni, poi vado a cena con mia moglie. Lì parliamo del mio lavoro o del suo. Lei fa la curatrice, per la High Line (8) e poi per altri progetti... E poi dopo cena cerco di leggere delle cose che riguardano i progetti a cui sto lavorando, o se ce la faccio un po’ di letteratura, poi se riesco guardo un film o una serie tv... Adesso stiamo guardando Newsroom e Breaking Bad... E quindi quello che dicevo prima: vado a letto a mezzanotte e cerco di dormire subito. Esco con amici, ma molti dei miei amici fanno lo stesso che faccio io, quindi si lavora...
INTERVISTATORE
Quindi hai accettato il tuo destino, insomma...
GIONI
Sì [ride. nda].
INTERVISTATORE
E dov’eri in vacanza?
GIONI
In Messico. Prima siamo andati a Città del Messico dove io ho fatto un po’ di lavoro tra gallerie e artisti, poi abbiamo guidato in giro per il Messico e poi siamo andati a Tulum in spiaggia...
INTERVISTATORE
Com’è viaggiare in Messico?
GIONI
Per quanto riguarda le strade hanno delle autostrade e moltissime strade che sono Interstate e hanno tantissimi speedbumps, quindi è una follia perché ci vuole tanto... È stato bello, ma non è un grande viaggio on the road... Invece due estati fa ho dedicato tutto il tempo alle letture per la Biennale... Però quello che cerco di fare è di leggere non di arte, ma cose collegate al lavoro che sto facendo che siano però di filosofia, storia o letteratura...
INTERVISTATORE
La Biennale era sostanzialmente più grande delle altre biennali che hai curato o no?
GIONI
Allora, io ho fatto un’altra Biennale in Sud Corea che per superficie è simile, ma non ha tutti i padiglioni nazionali, che però non curo io... la differenza è che la Biennale è la mostra più grande e con più attenzioni al mondo che abbia mai curato... Non è solo la grandezza, ma il livello di “scrutinio”.
Allora, a Gwangju (9) ho avuto due anni pieni per fare la mostra, che è stata nel settembre 2010, mi avevano nominato a marzo del 2009 ma me l’avevano detto il 24 dicembre del 2008 perché la cosa affascinante dell’Asia è che chiaramente a loro non frega niente del Natale... [ride, nda]. Da contratto dovevo andare ogni due mesi e poi sono stato due mesi durante l’allestimento vero e proprio della mostra... In una città assurda, che per loro è piccola, ha 800mila abitanti, e a colpo d’occhio è abbastanza brutta, ma che comunque ha una delle biennali più importanti al mondo. Però è anche abbastanza provinciale quindi è molto coreana, nessuno parla inglese...
INTERVISTATORE
E qual è stata invece la prima Biennale che hai fatto? Quella di Berlino (10)?
GIONI
No, la prima è stata una piccola sezione della Biennale di Venezia nel 2003, che è stato un anno in cui dal punto di vista curateriale sono cambiate un sacco di cose. Sono venuto a lavorare qui e ho fatto questa piccola sezione alla Biennale, poi la vera prima Biennale che ho fatto è stata in Spagna (11) nel 2004 e poi nel 2006 a Berlino...
INTERVISTATORE
È divertente organizzare la Biennale?
GIONI
Sì, è divertente perché è la cosa che più mi piace fare e la cosa che so fare, però è anche difficile per il livello di pressione oggettiva, nel senso che la Biennale di Venezia la vedono tutti i professionisti del mondo dell’arte e poi se va tutto bene la vede mezzo milione di persone, e quindi ciò che chiedo a me stesso in preparazione della Biennale è moltissimo e lo stress sia eteroindotto che autoindotto è tanto... Non so se sono ambizioso, in inglese c’è una parola orribile che è overachiever, voglio che le mie mostre cambino qualcosa, non per me ma nei sistemi di valori accettati nel mondo dell’arte o nella storia dell’arte...
INTERVISTATORE
Come verifichi se questa cosa è avvenuta o no?
GIONI
Da tanti fattori: se piace, se disturba, se tocca dei tasti. Se qualcosa è un game changer lo capisci e non so se questa Biennale di Venezia lo è stata, è troppo presto per dirlo... Però quando parlavamo di portare la Fondazione Trussardi fuori dallo spazio espositivo e riscoprire la città, disegnare la città attraverso gli artisti, realizzare questo ha cambiato qualcosa credo nella percezione di Milano, dell’arte contemporanea... Poi sai, non posso dire se le mie mostre hanno cambiato la storia dell’arte, per quello ci vogliono anni per capirlo, però è quello che mi interessa se devo confessarti...
INTERVISTATORE
E il lavoro alla Fondazione (12)com’è?
GIONI
È molto bello perché da una parte ho la fortuna di avere un committente, l’istituzione di Beatrice Trussardi e della famiglia Trussardi, che è interessata ad avere una Fondazione non solo come strumento di marketing e di pubblicità, ma come forma di responsabilità civica e istituzionale nei confronti della cultura, quindi significa che ovviamente sono felici se vendiamo più borse grazie alla pubblicità che fa la mostra al marchio, ma soprattutto vogliono che queste mostre siano eccellenti nel campo dell’arte, che cambino qualcosa...
INTERVISTATORE
Loro hanno un ritorno economico?
GIONI
Non diretto, hanno un ritorno di immagine e se vuoi fiscale, la Fondazione è no-profit, il che vuol dire che hanno degli sgravi fiscali su ciò che investono, però non è un ritorno economico... Ma soprattutto è una vocazione alla cultura che hanno sempre avuto da quando il padre ha aperto qui e ha deciso che dentro ci fosse uno spazio per la cultura, cosa che adesso è normale, ma loro l’hanno fatto nel 1996... Cioè, che una casa di moda sentisse la responsabilità non solo di fare vestiti, ma anche di migliorare la qualità della vita intellettuale non era una cosa che allora andava di moda e proprio perché sono stati tra i primi a farlo credo che abbiano un interesse sincero, e non lo dico per leccare i piedi al mio datore di lavoro. È un aspetto interessante soprattutto in Italia in cui le istituzioni pubbliche per l’arte contemporanea sono state un po’ carenti e quindi alcuni privati si sono assunti gli oneri del fare cultura.
INTERVISTATORE
E tu pensi che funzioni comunque, cioè che la selezione sia al di sopra di ogni sospetto?
GIONI
Se vuoi, la critica che si può fare alle Fondazioni di moda è che abbiano una certa predilezione per un’arte più spettacolare, e magari di questo sono io stesso il responsabile perché magari molte opere che vedi sono fotogeniche e molte delle nostre mostre vanno al di là dell’arte contemporanea e diventano fenomeni di costume, però quest’aspetto credo che abbia contribuito a rendere l’arte molto più popolare. È un aspetto sul quale mi interrogo, però se le nostre mostre adesso vengono visitate da decine di migliaia di persone è anche perché hanno quell’aspetto di confronto e di spettacolo, poi la questione è come riesci a fare uno spettacolo che è critico e non burino e consolatore... Io credo di occuparmi degli artisti di ricerca e di punta, che appunto cambiano o modificano la percezione della visione dell’arte. Poi ciascun artista crede che sia cosi, ai posteri l’ardua sentenza. Dall’esterno c’è il mito del curatore come una specie di jetsetter internazionale che vola in tutto il mondo a scoprire le tendenze, è un’immagine che trovo abbastanza stereotipata e monodimensionale perché poi gran parte del mio lavoro lo faccio sui libri, studiando, guardando e preparando le mostre. Gran parte del lavoro è decidere le opere, discuterne insieme agli artisti e aiutare a realizzarle, e decidere come porte nella mostra cosicché l’opera parli nel modo più interessante, più bello, più stimolante... Alla fine l’opera d’arte è un oggetto nello spazio che fa qualcosa a uno spettatore in virtù della sua fisicità e che in virtù del modo in cui è presentata può significare cose diverse, quindi il mio lavoro è quella scrittura nello spazio. Quindi in realtà gran parte del mio lavoro sta nel decidere se un’opera deve stare a trenta centimetri da un’altra...
Io faccio disegni sui tovagliolini.