Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 24 Giovedì calendario

LA MIA VECCHIA NUOVA YORK


Nel 2010, Bill de Blasio portò moglie e figli da Napoli a Sant’Agata de’ Goti, una cittadina medievale arroccata su un collina. Come molti italoamericani con un forte senso delle proprie radici, de Blasio aveva visitato diverse volte la città natale di suo nonno. La prima volta nel 1975, a quattordici anni, e in quell’occasione aveva provato l’emozione di vedere la stanza in cui era nato nonno Giovanni, il suo modello; poi, alla fine degli anni Ottanta, era andato a Sant’Agata per aiutare la madre nelle ricerche per un libro sui partigiani italiani durante la Seconda guerra mondiale. Ma il viaggio del 2010 fu diverso: perché Bill nel frattempo era diventato uno dei politici più in vista di New York e già accarezzava l’idea di candidarsi a sindaco, ma anche perché in quell’occasione andava a Sant’Agata da padre ansioso di presentare ai parenti la nuova generazione di de Blasio. «E tutti erano felicissimi che avessero nomi, Chiara e Dante, che non facevano fatica a pronunciare», dice con una risatina de Blasio nell’intervista esclusiva rilasciata a IL. Se i nomi dei due ragazzi suonavano familiari a un orecchio italiano, le loro fattezze interrazziali erano meno consuete. «Uno poteva pensare che fosse un gran problema», dice de Blasio, ma i parenti non rimasero particolarmente turbati e l’aspirante sindaco di New York attribuisce il merito ai progressi fatti dall’Italia dai tempi in cui aveva visitato per la prima volta il “vecchio mondo”, da adolescente. «Girando per la città sentivo che la gente un pochino rimaneva interdetta, ma niente di eclatante».
I newyorchesi, invece, la famiglia de Blasio l’hanno trovata eclatante eccome. E in senso buono. La famiglia multirazziale del cinquantaduenne de Blasio e il tema del progresso (o, per essere più specifici, il suo progressivismo radicale) hanno alimentato la combattiva campagna dell’esponente italoamericano per conquistare la nomination democratica e diventare il superfavorito alle elezioni del 5 novembre per la poltrona di sindaco di New York, un incarico che sotto il primo cittadino uscente, il miliardario visionario Michael Bloomberg, ha acquisito un peso internazionale ancora più grande, tornando a fare della città l’asse intorno a cui ruota il mondo.
Se sarà eletto, de Blasio sarà il primo italoamericano a sedere sulla poltrona di mayor dopo Rudy Giuliani, sindaco negli anni Novanta, ma il primo di estrazione democratica da oltre mezzo secolo, da quando Vincent Impellitteri conquistò lo scranno dopo essere stato letteralmente scelto a caso da un direttorio di boss politici cittadini che necessitavano di un accento italiano nella squadra. «È un legame molto forte, e che non si è mai spezzato dall’immigrazione del 1905», dice de Blasio parlando delle sue radici italiane e dei suoi nonni emigrati in America. «Abbiamo qualcosa che è molto prezioso, da questo punto di vista».
Come quegli avi paisà, anche l’avversario repubblicano di de Blasio, Joe Lhota, che è un po’ italiano, un po’ebreo e un po’ceco, per vincere dovrà affidarsi ai white ethnics (i bianchi non anglosassoni) della città, la cui forza numerica però è in declino. Ma de Blasio, quasi due metri di altezza e postura convessa, guida una coalizione più ampia e colorata, che mette in discussione la rilevanza stessa delle appartenenze etniche e della politica tribale che hanno governato la città per un secolo. Alle primarie democratiche ha conquistato più consensi nella comunità nera di quanti ne ha ottenuti il candidato nero, più sostegno nella comunità gay rispetto alla candidata gay, più voti delle donne di quanti ne ha ricevuti la candidata donna. Le ragioni sono molteplici: de Blasio ha raggiunto l’apice dei consensi nel momento giusto; il candidato favorito era troppo legato a Bloomberg in un’elezione in cui l’elettorato chiedeva un cambiamento; il candidato nero era un grigissimo uomo d’apparato; l’uomo che gli contendeva la palma di portabandiera della sinistra, il più famoso e brillante Anthony Weiner, si è avvitato in uno scandalo nato dalle foto di parti anatomiche non censurate del proprio corpo spedite a varie donne con lo pseudonimo di Carlos Danger. (Niente male, eh?)
Tra le moltissime ragioni della vittoria di de Blasio forse la più importante di tutte è la modernissima famiglia italoamericana, che si è rivelata il suo simbolo di inclusione più forte. E lui l’ha sfruttato fino in fondo. Una pubblicità elettorale spiegava che de Blasio, nato Warren Wilhelm da madre italoamericana e padre tedescoamericano, è cresciuto nel Massachusetts, ma ha cambiato legalmente nome per prendere le distanze dal padre, veterano della Seconda guerra mondiale, amputato e alcolizzato. Ha abbracciato per scelta un’identità personale italoamericana, ma ancor di più un modo di vivere così New Brooklyn che più New Brooklyn non si può. Sua moglie Chirlane, ex poetessa lesbica di origini guyanesi, è comparsa nei suoi volantini. Sua figlia Chiara, incarnazione perfetta di Park Slope, il quartiere della sinistra intellettuale di Brooklyn, elegante, raffinato e tollerante, è tornata a New York dal college per dimenarsi vestita da Wonder Woman al Gay Pride. E negli spot elettorali l’imponente acconciatura afro di suo figlio Dante era sempre presente.
Ma tutta questa attenzione sulla famiglia fa passare in secondo piano la vera forza di de Blasio: il suo messaggio.
«Molti di quelli che mi hanno dato il voto lo hanno fatto perché sentivano che New York non era più accessibile – dice de Blasio –, che stava diventando esclusiva, che non aveva più la stessa identità. Chi mi ha votato vuole cercare di contrastare in qualche modo questa tendenza».
De Blasio è da sempre fortemente schierato a sinistra. Nel 1988, quando aveva 26 anni – era militante pacifista e si era laureato alla Graduate School della Columbia University –, è andato a distribuire cibo e medicine in Nicaragua, dove si è fatto conquistare dalle potenzialità del governo sandinista, in realtà radicalmente di sinistra e combattuto dal presidente Ronald Reagan in quanto dittatura comunista.
L’anno seguente ha accompagnato sua madre in giro per l’Italia per aiutarla nelle sue ricerche sulla resistenza antifascista e sui fascisti. Nella corsa alla poltrona di primo cittadino di New York, però, l’attenzione si è concentrata più sul suo sostegno ai sandinisti che su quello ai partigiani italiani.
«E abbastanza evidente che abbiamo una visione molto diversa di come dovrebbero funzionare i governi nel mondo», ha detto lo sfidante Lhota ai giornalisti dopo che il New York Times aveva pubblicato un articolo su de Blasio in Nicaragua. «Lui si definisce un “socialista democratico”. È molto triste che sia questo il livello a cui siamo arrivati in questa città».
De Blasio è diventato più realista con l’età e si è trasformato in un politico che i colleghi hanno cominciato a considerare codardo e opportunista, più che idealista. Ma nella campagna per diventare sindaco ha attinto alle sue esperienze politiche formative e ha articolato con forza e chiarezza maggiore di chiunque altro la vecchia idea dell’unificazione del fronte di sinistra. Con lo slogan delle «due città», con cui accusa Bloomberg di aver perpetuato una divaricazione sempre più grande tra ricchi e poveri, e con schemi elettorali influenzati dalla campagna (e dal consulente politico) di Obama, de Blasio ha colpito l’immaginazione di una città che guarda con fastidio alla trasformazione di Manhattan in un articolo di lusso.
Il candidato italoamericano promette più case popolari, scuole migliori e in generale più uguaglianza. È un programma marcatamente di sinistra, che ha spinto alcuni osservatori americani, fra i quali l’ex direttore di New Republic Peter Beinart, a incensare de Blasio come capofila di una «New “New Left”» di giovani ostili allo strapotere del grande capitale, molto più a sinistra del presidente Obama. Non è un caso che leader nazionali effettivi e potenziali come Hillary Clinton (di cui nel 2000 de Blasio gestì la campagna per il seggio di senatore), il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo (per cui de Blasio ha lavorato come direttore dell’edilizia regionale) e il senatore Chuck Schumer, il re politico di New York, abbiano tutti parlato della forza del suo messaggio.
«Sono modesto, nel senso che sono uno che ha presentato una visione diversa per New York e ha palesemente conquistato un consenso reale; c’è ancora molto da fare per portare a termine questa battaglia, perciò non ho nessuna illusione di grandeur – dice de Blasio –. Detto ciò, i tempi ormai sono maturi per queste idee. Queste elezioni sicuramente hanno stimolato un dibattito più ampio sul tema della disuguaglianza, e ne sono molto felice».
Aggiunge: «Perché, diciamolo, quello che facciamo a livello locale è una parte della soluzione e il Comune di New York dispone di mezzi per trovare soluzioni locali più di qualsiasi altro posto. Abbiamo più strumenti di chiunque altro e siamo in grado meglio di chiunque altro di metterli in campo; abbiamo la struttura amministrativa più sviluppata, ed era così anche quando il mitico sindaco Fiorello La Guardia dovette affrontare la Grande Depressione. Abbiamo sempre avuto la capacità di reagire con modalità che per molte città e molti Stati sono impossibili. Detto questo, tuttavia, i problemi sono di portata realmente nazionale, per certi versi internazionale. E anche le soluzioni, le soluzioni durature, devono essere affrontate a un livello più alto».
È stata proprio la New York come terra di opportunità per chiunque, e non solo per i ricchi, ad attirare i suoi antenati italiani, fra cui nonno Giovanni. «Dopo che la mia famiglia aveva passato tutte quelle traversie, io ho cercato, anche se non la mettevo in questi termini, un qualche antidoto, un modello, qualcosa a cui aggrapparmi – racconta de Blasio –. E poi, quando sono andato a fare quell’esperienza in Italia, così giovane, si è consolidata fortemente in me l’idea che esisteva un modo efficace di vivere e pensare la famiglia, e pensare la vita, e questo mi ha dato un grande aiuto per affrontare buona parte del dolore. Non c’è davvero altro modo per dirlo».
Giovanni emigrò da Sant’Agata nel 1884, «pochi anni dopo il completamento dell’Unità d’Italia e dopo la cacciata delle potenze straniere dall’Italia. Pensate a quanto tempo è passato», dice de Blasio. Ebbe successo, e cosi sua moglie, che veniva da Grassano, vicino Matera, e aprì un negozio di vestiti sulla Quinta strada insieme alla madre e alla sorella.
Nonostante le sue tanto decantate radici italiane, de Blasio è ostile alla trasformazione bloomberghiana di New York in un satellite dell’Europa, un parco giochi per ricchi con biciclette e piazze aperte, e che non si cura delle sue parti più povere. Non è detto che sia una buona notizia per gli immigrati italiani dei nostri giorni, che hanno poco in comune con i nonni di de Blasio. Gli immigrati italiani di oggi non sono le masse accalcate, sono persone di talento e spirito cosmopolita che cercano di fuggire da un’economia sconfortante per passeggiare lungo il parco dell’High Line, costruito sopra una vecchia ferrovia abbandonata, o per godersi la sterminata offerta di negozi e locali della città. Ma de Blasio dice che i nuovi immigrati italiani non dovranno preoccuparsi, e che si è già incontrato con italiani che lavorano nell’industria high-tech newyorchese, che fanno gli artisti («le persone che originariamente hanno portato la cultura: gli italiani!») e che possiedono piccole imprese, come il proprietario di Industria Superstudio nel West Village.
«Voglio dirle che il mio lavoro e la mia passione consistono nell’aiutare New York ad attirare i migliori talenti da ogni parte del mondo – dice de Blasio –. Detto questo, essendo molto orgoglioso delle mie origini, mi rendo conto che esiste un grave problema in Italia, legato al fatto che così tante persone di talento lasciano il Paese perché non riescono a trovare opportunità adeguate. Anche se voglio che New York benefici dell’apporto dei migliori talenti del pianeta, e molti di questi talenti vengono dall’Italia, devo dire che questa cosa mi suscita un certo dolore. Spero che un giorno l’Italia riesca a risolvere i suoi problemi e che sempre più italiani riescano a vivere e prosperare nel loro Paese».
Ma mentre Bloomberg lascia la poltrona di primo cittadino sottolineando che se tutti i miliardari del mondo si trasferissero a Manhattan (ehi, Berlusconi, dice a te) per la città ci sarebbero solo vantaggi, de Blasio invece è più interessato a riparare il sistema di valori di New York. Sicuramente, dice, la nuova generazione di immigrati italiani lo apprezzerà.
«Penso che questa New York che amano tornerà ad alcune delle sue radici e dei suoi valori, tornerà a essere una città inclusiva, solidale e progressista. È riduttivo definirmi antibloomberghiano a prescindere – sostiene de Blasio –, che non avrebbe mai pronunciato una frase del genere durante le primarie, quando raffigurava Bloomberg come il diavolo in persona –. Io penso che l’era Bloomberg abbia avuto alcuni aspetti molto positivi e alcuni aspetti molto preoccupanti. Ma ciò di cui parlo è come si è conclusa l’era Bloomberg: a mio parere si è conclusa su una nota molto negativa. La disuguaglianza è dilagata e non c’è stata nessuna risposta, nessuna idea generale su come affrontare questi problemi. Al contrario: Bloomberg si è dimostrato refrattario alla storia di New York, all’inclinazione di New York ad affrontare i problemi attraverso la solidarietà, attraverso l’interventismo delle istituzioni, con l’inclusione».
La sera delle primarie, una folla di pezzi grossi della politica locale si mescolava con ragazzi alla moda con scarpe da skate e occhiali dalla montatura grossa, mentre alla Bell House, un locale del quartiere di Gowanus, a Brooklyn, suonavano i Mumford & Sons e gli LCD Soundsystem. Fuori, i volontari mangiavano artisanal pizza e rolls all’aragosta acquistati per strada nei food trucks per buongustai. Tutto molto New Brooklyn. Sul palco, la figlia di de Blasio, con un abito rosso scarlatto e ghirlande tra i capelli che più tardi ha definito «eteree», ha presentato il papà. Quando ha cercato ironicamente di accarezzare la capigliatura altamente simbolica del fratello, de Blasio ha commentato scherzando che avrebbero chiamato la sicurezza. Il candidato democratico ha detto cose bellissime su sua moglie, poi tutta la famiglia (insieme al cugino Vinnie, il più italiano fra i presenti sul palco nonostante sia del lato Wilhelm della famiglia) ha eseguito la smackdown dance, un balletto reso famoso in questa campagna elettorale dai de Blasio e che consiste nel passarsi la mano sulla testa, poi davanti alla faccia e infine, dopo averla baciata, sbatterla giù (smack down, appunto).
«Qualcuno dice che la nostra visione per New York sia troppo ambiziosa, che stiamo chiedendo troppo ai ricchi ha detto de Blasio dal palco e anche che miriamo troppo in alto per i nostri figli, che abbiamo la colpa, la colpa, amici miei, di pensare troppo in grande. Ma voglio dirvi questo: noi siamo newyorchesi. Cittadini orgogliosi della più grande città della Terra. Pensare in grande non è una novità per noi: è l’essenza stessa di quello che siamo!».