Michele Masneri, IL 24/10/2013, 24 ottobre 2013
COME FU TEMPRATO IL VINO DI D’ALEMA
Intanto i nomi. La tenuta si chiama La Madeleine, e uno si aspetterebbe di veder spuntare dai filari qualche Guermantes, o almeno una marchesa di Villeparisis, o un Saint-Loup: e comunque sfarzo, lusso e voluttà. Il vino più importante della produzione si chiamerà Sfide – un cabernet in purezza di cui si faranno 3.000 bottiglie l’anno. Poi l’enologo prescelto, Riccardo Cotarella, presidente ma per estensione "Re" degli enologi italiani, secondo la vulgata, già consulente di Berlusconi e Clooney.
Insomma, da questa tenuta Madeleine di Massimo D’Alema ci si aspettano grandi cose. Messa su nel 2009, sono quindici ettari tra Narni e Otricoli, nel sud dell’Umbria, a un’ora e qualcosa da Roma. Non solo la collaborazione col Re degli enologi ma anche l’inserimento della Madeleine in un ambizioso Wine Research Team per fare vini naturali rivoluzionari d’alta gamma senza l’uso di solfiti. Al progetto aderiscono altre 25 tenute tra cui le araldiche Conte Leone de Castris e Domaine du Comte de Thun.
Alla Madeleine, si apprende, oltre al cabernet sono impiantati anche il merlot, il pinot nero e i sofisticati Marselan e Tennat. Del resto, studiando, si scopre che le grandi passioni dalemiane sono per i grandi cru francesi. Scrive Giuseppe Salvaggiulo ne Il peggiore, odiografia del lider maximo uscita qualche mese fa per Chiarelettere, che in un volo di Stato l’ex presidente del Consiglio mostrò a uno steward affascinato la sua perfetta conoscenza dei vitigni francesi, derivata dallo studio di ponderosi saggi. Inoltre, «negli anni Novanta, D’Alema impazziva per il Sauternes, una volta aveva conosciuto uno dei più grandi e autorevoli produttori, un barone, che gli regalò una bottiglia invecchiata vent’anni».
Passioni naturalmente strumentalizzate: accanto alla sua famosa barca Ikarus, qualche anno fa furono fotografate casse vuote di Moët&Chandon, con relative polemiche e addirittura un’apertura di prima pagina del Giornale: «Ma quanto champagne beve D’Alema?». E anche in questi giorni, commenti invidiosi sul fatto che l’esperienza georgica sia stata effettuata qui in Umbria e non nell’amata Puglia. Su Brindisi Report si fa dello spirito su «l’ex deputato di Gallipoli», chiedendosi se in futuro «nella cantina D’Alema ci sarà spazio anche per un Negramaro o un Primitivo» (Il Primitivo, a Manduria, lo produce invece Bruno Vespa, che condivide lo stesso enologo di D’Alema, e ha comprato una masseria, scegliendo, lui, la strada filologica e a chilometri zero). Ma lui non si preoccupa. «Faremo un rosso, anzi un grande rosso», ha detto col tono che ci piace ai microfoni di NarniOnline durante la festa dell’Unità del paese. E dunque ci si aspettano grandi cose da questo Château Mouton-D’Alema: tenimenti prestigiosi, un’antica magione, feudalità.
A nulla servono le dichiarazioni colme di understatement, anzi è una conferma: «Sono passato dalla passione alla produzione di vino – ha dichiarato a WineNews –, ma senza velleità di diventare un grande produttore. Si tratta di un’esperienza che voglio condurre con lo spirito prima di tutto di amante del vino insieme a mia moglie Linda». La vulgata narra che la tenuta sia stata comprata vendendo il mitologico Ikarus; nel settembre 2011, nel fondo di pagina 282 del mensile specializzato Nautica, si leggeva un malinconico annuncio: «Vendesi Ikarus, pluripremiata imbarcazione per lunghe crociere veloci. Coperta in teak, attrezzature Harken con winch elettrici. Interni in ciliegio con 4 cabine, 3 bagni». Il passaggio dalla marineria alla terra l’ha svelato nel 2011 Alberto Gentili su Il Messaggero commentando la vendita del natante: «La decisione l’ha presa prima dell’estate a causa del pressing della moglie Linda Giuva. Una sorta di aut aut: "Non ci possiamo permettere la barca e l’azienda agricola. Devi scegliere tra l’una e l’altra"», questa la ricostruzione. Alla festa democratica di Ostia del 2011, invece, come ricorda sempre Salvaggiulo ne Il Peggiore, parla lui: «Siamo pieni di debiti. Ho messo su una piccola azienda agricola, i titolari sono i miei figli. Cose abbastanza normali, ma tutti si impicciano degli affari miei. Prima, siccome ho la passione per il mare, ho venduto una casa in campagna che mi aveva lasciato mio padre. Poi a un certo punto mia moglie ha detto: "Basta, noi dobbiamo dare qualcosa ai nostri figli".
Abbiamo preso un pezzo di terra e abbiamo fatto un mutuo. Ma siccome questo mutuo è piuttosto oneroso, un mutuo trentennale da un milione di euro perché non avevamo soldi per comprare ’sta cosa e il rateo è alto, mia moglie ha detto: "Qui la barca non ce sta, la dobbiamo vendere". Tutto questo è normale, non capisco perché mi debbano rompere le scatole, oltretutto è la testimonianza che ho una vita assolutamente normale». Noi però non ci facciamo ingannare. Vogliamo i feudi. Vogliamo i vitigni francesi, e D’Alema in versione Guermantes. La segretezza accresce le aspettative.
La Madeleine è blindatissima, mai è stata visitata da alcun giornalista, ed è difficilissima da trovare: il numero di telefono è introvabile, forse non esiste nemmeno; non c’è sito internet, non la conosce nessuno. Casualmente, la gita si effettua un giorno di fine settembre in cui viene annunciata la vendita di Telecom agli spagnoli, dunque memorie poco proustiane di tutti i capitali coraggiosi e privatizzazioni a bordo del panfilo Britannia: e sempre casualmente il 3G Tim quel giorno è assente su tutto il circondario, dunque non funzionano i navigatori (in un accesso di esaltazione si arriva a sospettare l’oscuramento Copasir del segnale sui feudi dalemiani). Non si hanno naturalmente mappe geografiche, e arrivando in autostrada occorre ingegnarsi, si supera Narni e un castelletto e una centrale idroelettrica, su una strada un po’ da Twin Peaks con un’atmosfera sinistra; si circumnaviga più volte il paese di Otricoli, l’antica Ocriculum già glorificata da Goethe nel suo Viaggio in Italia – «Valli e valloni, da presso e da lontano, tutto è delizioso. Giace su un colle ghiaioso, accumulato dalle antiche correnti; costruita con pietre di lava».
Si passano zone industriali e viene in mente il commento scettico di un altro viaggio in Italia, quello di Guido Piovene, sulla vicina Terni, «l’unica città veramente industriale e operaia dell’Umbria. Nulla qui è somigliante alle industrie di qualità, così tipiche della regione, belle come musei e fiorenti come oasi. Mi ha fatto pensare a certi innesti di materia organica che non riescono ad attecchire su corpi poco inclini ad assimilarli. Vi ho trovato un’atmosfera agitata e apprensiva». Anche noi siamo agitati e apprensivi. Perché il posto non si trova. Si fa tappa dunque a Otricoli, paese molto risorgimentale con una piazza Garibaldi e tante vie che ricordano le guerre di indipendenza, una Cernaia, e una Via Venti Settembre, una Cavour; sulla via Roma invece una targa anche esplicativa: «Nel settembre del 1845, Massimo d’Azeglio sostò in una locanda del borgo. Il colloquio con un cameriere fu l’inizio di un sondaggio sulle idee dei sudditi dello Stato pontificio, riferite poi a Carlo Alberto, in un incontro divenuto famoso perché definito il prologo del risorgimento». Anche D’Alema faceva i sondaggi coi sudditi come il suo collega marchese e presidente del Consiglio – tra l’altro somigliante, con baffi simili. Però ultimamente, li ha diradati, i sondaggi: la signora Mafalda, macellaia sul corso e fine politologa, nota che D’Alema, che amava molto passeggiare qui e parlare coi locali, ultimamente viene meno perché ci si è presa troppa confidenza, forse. La signora Mafalda vota Pdl ma apprezza molto l’ex presidente Ds: cui fornisce costate e salsicce per i barbecue di cui si incaricherebbe personalmente il leader, che – ci viene detto – ama anche molto i carciofini.
Ci vengono date le informazioni geopolitiche: la tenuta è esattamente all’incrocio tra i comuni di Narni e di Otricoli; viene fatto notare che il primo è a guida Pd, il secondo, preferito da D’Alema, Pdl (qui il sindaco è l’imprenditore delle pompe funebri Nico Nunzi). Si apprende che con spirito da larghe intese il nome di un altro vino della Madeleine è proprio NarnOt, crasi di Narni, Otricoli, e un rimando a Merlot. (C’è pure un NerOsé, un brut ottenuto con pinot nero, che secondo D’Alema «ha già ottenuto importanti riconoscimenti», anche se il nome sembra un po’ da lingerie; ma il naming vinicolo dalemiano potrebbe assurgere a materia di studio di nicchia in futuro, forse).
Intanto, all’unica trattoria aperta di Otricoli si mangiano i manfricoli (grossi spaghetti fatti con acqua e farina), si leggono i giornali locali e si parla: e tutti raccontano che questa sarà una grande annata, e una gran vendemmia. Sul Giornale dell’Umbria si legge di un progetto turistico di alta gamma – titolo «L’Umbria del lusso apre le porte ai nuovi ricchi cinesi» per portare i nuovi affluenti nelle «bellezze degli agriturismi e le spa più lussuose», mentre la Urbani Tartufi, altra eccellenza locale, ha aperto un Urbani Truffles a Manhattan e ha appena lanciato una linea di sushi al tarfufo. Un erede Fendi ha aperto un relais poco lontano da qui. Ci si ricorda che Gianfranco Vissani col suo ristorante di Baschi è a soli ventinove chilometri da qui; e per di più in autostrada ci ha superato una vecchia e gloriosa Rolls Royce Silver Shadow. Tutto concorre a farci sognare una Falcon Crest dalemiana.
Allora si riparte, con le indicazioni orali, per questa Madeleine, posta in una «strada di Montini», che però non dovrebbe centrar nulla con papa Paolo VI, quello secondo cui «sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono». Questo è invece uno stradone polveroso e largo, assolato, sotto il centro storico del paese. Lo si percorre tutto e si arriva in una tenuta molto ducale o comitale, con casale e arcate in pietra, trattori John Deere verdi e filari di Cabernet a perdita d’occhio; dei suv parcheggiati targati Roma, e molte Ford Fiesta e scooter targati invece Romania (sono i lavoranti per la vendemmia); fotografe cinesi con zoom che scattano tra i filari. Si crede subito di aver fatto lo scoop, e di poter avvistare a breve il leader su un trattore, magari maltrattante con cipiglio le maestranze; si provano gli stessi brividi di Mario Brenna quando fotografò in Sardegna il bacio tra Diana e Dodi Fayed. Invece niente: sono solo i vicini di casa, un agriturismo per affluenti forse asiatici. La tenuta del leader sta accanto. Un agronomo gentile ci guida fino al posto giusto, e lì però crescono timori e tremori. Ci lascia davanti a un vialetto, e saliamo, e però, subito, siamo sicuri di esserci sbagliati, non può essere quella, la Madeleine: su un poggetto, però un poco avvallato, in una posizione così così: una villetta rossa, moderna; su due piani, con dei balconcini, e un padellone satellitare sul tetto, però piccolo. Non può essere, non ci si crede. Si prosegue, dunque: un altro casaletto, però con un’aura un po’ più antica, «rudero tirato al fino» come direbbe Franca Valeri in Parigi o Ccara. Spuntano due golden retriever, e dunque si pensa di aver centrato l’obiettivo, almeno il casale ha una sua solennità, guarda tutta la vallata. Invece no, questa tenuta qui si chiama Telos, cioè "fine", in greco, ed è proprio alla fine della strada, e ci viene detto che non c’è niente da fare, i vigneti dalemiani son proprio quelli sotto, sullo stradone.
Si torna giù, e si osserva questa landa. Due piani fuori terra, un seminterrato (con tavernetta?) gli infissi monovetro; saranno un duecento metri quadri, non di più. Sembra Milano 2, manca solo il lago dei cigni. Invece, intorno, una rete, e molti alberi da frutto, nuovi, che non fanno ombra. Un fico un po’ riverso e assetato, una carriola rovesciata; dei mucchi di letame; una cassetta della posta graziosa, da ferramenta, da Brico: senza nome. Niente citofono, ma un cancello (elettrico, moderno) non ancora collegato. Dei peri, nuovi. Un comignolo segnavento, di ferro battuto, da Cassago Brianza. Un gazebo Unopiù, sormontato da pannelli fotovoltaici. Niente piscina. Coppi nuovi nuovi, nemmeno a imitazione dell’antico. Non si intuisce la mano di alcuna archistar nemmeno locale, forse piuttosto geometri a chilometri zero. Subito però parte davvero l’effetto Madeleine: qui si è già stati; ci si ritrova infatti in certe villette bifamiliari di elettricisti e piccoli industriali del peltro che ce l’avevano fatta, a Brescia, negli anni Ottanta. Caminetti di marmo, e lo spiedo la domenica, con gli amici, ma tutto molto sobriamente, nella città di papa Montini, appunto. Certi marmi, scale lucide, proporzioni modeste. Pavimenti di grès porcellanato e clinker, e porte in noce nazionale, anche mobili in stile, forse faretti incassati (c’eravamo immaginati colombaie e magioni turrite: è invece il trionfo del cemento a presa rapida).
Si vedono però i famosi vigneti, arroccati proprio sotto il cimitero di Otricoli, che domina la vista (e mentre si arrivava, si sono passati i comuni di Morte, e Nera Montoro, e una casa di riposo Villa Carla, e insomma un’atmosfera un po’ così, poca gioia di vivere, un po’ Garlasco). Nella Madeleine adesso c’è un lavorante che sta spargendo degli anticrittogamici su alcuni ulivi. Poi arrivano altri due, sono sporchi di calce: stanno piastrellando la cantina, che è piccola anche quella, un altro casaletto sempre rosso – la cantina non è ancora operativa e le vendemmie per ora portano l’uva agli impianti di Cotarella, poco lontano da qui. Accanto alla piccola costruzione, un silos di malta Fassa Bortolo, per i lavori in corso.
Ci sono tre cani corsi, che tentano un’aria feroce. L’ordine è di non fare entrare nessuno, però il custode giovane Vittorio si informa di quale testata siamo, valuta e apprezza il prestigioso quotidiano milanese, chiede un numero di telefono, e riferirà comunque alla Famiglia (è l’unico momento Falcon Crest della gita. Massimo D’Alema, poi si scopre, è a New York per partecipare alla Clinton Global Initiative in qualità di presidente della fondazione ItalianiEuropei). Ce ne andiamo molto delusi. Un altro vicino ci dice perfino che non è vero niente, che il 2013 non è una grande annata perché «ha piovuto tanto e la vite è siccitosa, ha bisogno di soffrì», con lo stesso accento di Monica Bellucci ne I mitici (1994). Nel vallone intanto sta scendendo il sole, e giriamo la macchina tra i cipressetti nuovi da vivaio che circondano la villetta, proprio sotto il cimitero di Otricoli. Qui, ricordi di virtù georgiche e marinare. Una lapide antica celebra un «Domenico Dell’Orso, agricoltore sobrio benefico», e un’altra un «Ciccotti Guido, scomparso nell’affondarsi della nave Conte Rosso». Il comune è gemellato con Mstow, nella Polonia meridionale.