Limes: L’Iran torna in campo, n. 9 10/2013, 9 ottobre 2013
IL TRIANGOLO NO
1. «A DIO PIACENDO, DI OBAMA FAREMO UN MUSULMANO», sorrise sardonico re ‘Abdallah. Era il 7 novembre 2008 e il vecchio monarca saudita stava confidando agli intimi il tono della telefonata appena ricevuta dal neoeletto presidente americano [1]. Affabile scambio, concluso da Barack Hussein Obama con tipica locuzione arabo-musulmana – «inshallah», appunto «a Dio piacendo» – non così ovvia nella bocca del leader della massima potenza cristiana.
Quasi cinque anni dopo, il rieletto Obama scandisce in televisione la vera ragione della sua refrattarietà a impelagarsi nella guerra di Siria come agognato da ‘Abdallah, negli ormai rari sprazzi di assistita lucidità: «Gli Stati Uniti non si ficcheranno nel mezzo di una guerra civile altrui. Noi non metteremo soldati sul terreno siriano. Questa non è la guerra fredda. Se la Russia vuole avere una certa influenza nella Siria del dopo-Asad, ciò non danneggia i nostri interessi» [2].
Poi, il 27 settembre, Obama chiama al telefono Hassan Rohani, presidente della Repubblica Islamica d’Iran, l’arcirivale dei sauditi. Lo saluta in farsi «khodahafez», «che Dio vi guardi». Un tic? Poi comunica al mondo: «Credo che possiamo raggiungere un accordo complessivo» [3]. Americani e iraniani, alleati di ferro ai tempi dello scià, riaprono così, per lo sconforto di ‘Abdallah – e di Netanyahu – una conversazione interrotta dal 1979, quando Khomeini affermò in Persia la sua versione dell’islam sciita e la contrappose al «Grande Satana» a stelle e strisce.
Tre fotogrammi. Ma sufficienti a rendere il senso del divorzio che si sta consumando fra Stati Uniti e Arabia Saudita. E che potrebbe rivelarsi l’esito meno provvisorio e più profondo del sisma geopolitico che scuote l’ecumene musulmana e di qui il resto del mondo. Crepuscolo della lunga èra inaugurata dal matrimonio d’interessi – greggio arabo-saudita per protezione strategica americana – celebrato il 14 febbraio 1945 in Egitto tra Franklin Delano Roosevelt e ‘Abd al-‘Aziz al-Sa‘ud, fondatore del regno eponimo, a bordo dell’incrociatore Quincy, alla fonda nel Grande Lago Salato. Quel patto è stato l’alfa e l’omega degli equilibri nel Golfo, per riflettere la sua ombra lunga sul Grande Medio Oriente, dall’Afghanistan al Marocco e oltre. Ha resistito alle guerre arabo-israeliane e allo shock petrolifero del 1973 – quando re Faysal replicò a Henry Kissinger, che lo minacciava di boicottarne il greggio: «In tal caso torneremo alle nostre tende e vivremo del latte dei cammelli. Ma che cosa farete voi senza benzina per le vostre automobili?». Ed è sopravvissuto financo al trauma dell’11 settembre 2001, quando diciannove terroristi, di cui quindici sauditi, ispirati da un ex intimo di casa reale, si scagliarono contro i simboli dell’impero a stelle e strisce.
L’intesa americano-saudita ha permesso di disegnare il triangolo strategico Washington-Gerusalemme-Riyad, declinazione dei due interessi vitali che hanno incardinato gli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la guerra fredda: Israele e petrolio. Senza il perno saudita nel Golfo, anche il ben più radicato asse israelo-statunitense, apparentemente inossidabile, minaccia di girare a vuoto. Né si tratta solo, come recita la vulgata, del crescente disimpegno energetico degli Stati Uniti dai pozzi mediorientali, frutto dell’inebriante effetto degli idrocarburi non convenzionali oggi disponibili nel cortile di casa nordamericano. E nemmeno del contenimento della Cina battezzato pivot to Asia, tuttora vago. A incrinare quella storica intesa sta soprattutto contribuendo lo tsunami che da tre anni agita lo spazio del Mediterraneo allargato.
Fenomeno ancora in cerca di definizione. Stando al mainstream nastrano era la «primavera araba», presto scaduta a «inverno islamista». Per alcuni fra i suoi aspiranti maîtres à penser, come Tariq Ramadan, il «risveglio arabo» [4]. Secondo lo scaltro Rohani siamo alle «guerre di identità» [5]. Mustafa Cerić, già gran muftì di Bosnia ed Erzegovina, ce ne offre l’interpretazione più suggestiva, interna all’universo musulmano: stiamo ripetendo, su scala mediorientale, la tragedia andalusa del muluk al-tawa‘if – l’anarchia delle faide fra piccoli «re delle fazioni» (taifas, in spagnolo) – che nell’XI secolo minarono il califfato [6]. Guerre settarie, che al postero sguardo islamico si svelano nefasta premessa della reconquista cristiana (capitolazione di Granada, 2 gennaio 1492). Nelle quali si fece la fama del Cid Campeador e di altri mercenari cristiani, interessati al soldo più che alla fede dei reucci di riferimento.
Forse Obama non legge la Siria o l’Egitto con occhiali andalusi. Ma tra l’«inshallah» e il «no boots on the ground» – brutalmente, «se volete massacrarvi fra di voi, non sono affari miei» – si è consumata la sua scelta, non sappiamo quanto provvisoria (il presidente detesta gli impegni definitivi), di deludere re ‘Abdallah e la sua pletorica corte, con relativo codazzo di petromonarchi arabi. No, Obama non sarà il nuovo Cid. Non morirà – non moriremo – per Riyad. Se per questo occorre pagare prezzi un tempo impensabili, come la riammissione della Russia fra ciò che resta dei Grandi o financo l’apertura all’Iran, con massimo scorno di fratello Israele oltre che della casa di Saud, ebbene sia. Il dietrofront sulla Siria, avendo Obama infine respinto con il non gratuito aiuto russo l’ultimatum dato a se stesso sulle armi chimiche «invalicabile linea rossa», quando lo «strike incredibilmente piccolo» (John Kerry) pareva inevitabile, sigilla l’abdicazione dell’America al rango di arbitro del Medio Oriente e illanguidisce alquanto la sua residua influenza planetaria. Gli interessi globali di Washington ne eccedono di molto la potenza. Non riuscendo a incrementare la seconda, e trovando crescenti resistenze all’uso di risorse altrui per fini propri, deve ridurre i primi. Crisi di egemonia confermata dall’incapacità di mettere insieme l’ennesima coalizione dei volenterosi che avrebbe dovuto punire al-Asad per la strage chimica di Damasco del 21 agosto, a lui attribuita da Washington e non troppi associati.
Si accentua così il vuoto di potere nel nostro fronte Sud, dal Maghreb all’Asia occidentale e centro-meridionale, passando per Sahara e Sahel. Più o meno, la dar al-islam. Chi, quando e come lo riempirà? Quanti giri deve ancora compiere la giostra degli aspiranti re delle taifa?
2. Vista da Roma e dall’Europa, la mischia in corso lungo e oltre la Quarta Sponda altro non è che l’ultima fase delle guerre di successione ottomana. Un secolo è trascorso dal crollo della Sublime Porta, senza che le sue pur lasche diramazioni nordafricane, levantine e arabiche abbiano trovato stabili sistemazioni. La dissoluzione di un grande impero libera sempre energie tettoniche di medio-lungo periodo. Talvolta visibili, talaltra carsiche. Nel caso post-ottomano, lo sciame sismico continua. Le potenze occidentali che con intese segrete – la democrazia all’epoca non era merce d’esportazione né era delicato esibirla presso popolazioni incivili – si illusero di convogliarne l’impatto ne sperimentano oggi il fallimento. Prima Gran Bretagna e Francia, con gli accordi Sykes-Picot (1916), poi l’America – con il patto del Quincy (1945), all’apogeo del trionfo, e infine con l’avventurosa guerra al terrorismo sublimata nell’utopia neocon del Nuovo Medio Oriente (2001-2007) – hanno inutilmente tentato di imporre il loro ordine a popolazioni refrattarie.
Il buco nero prodotto dal collasso del califfato turco-ottomano non è stato colmato dai mandati paracoloniali o dalle astruse imitazioni del modello vestfaliano negli spazi arabi e islamici. La frammentazione delle entità post-ottomane si è propagata a macchia d’olio, investendo, minando e talvolta distruggendo gli improbabili Stati nazionali eretti nel secolo scorso con serena indifferenza per la coesione etnica, la sostenibilità economica e socioculturale, la cogenza dei confini. Dall’’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, trascurando il Libano di sempre e forse lo stesso Egitto di domani – per tacere di sabbie e savane africane solcate dalla «fascia salafita» – lo iato fra carte politiche ufficiali e configurazioni geopolitiche informali ma effettive è abbagliante. (Di passaggio si osservi come molti autorevoli decisori, nell’Occidente avanzato, tendano tuttora a servirsi delle rappresentazioni formali, di quei territori, le stesse che i loro discendenti frequentano sui banchi di scuola — ciò che invita all’indulgenza quando paiono reiterare gli errori dei nonni.)
Nella corrente fase delle guerre post-ottomane e post-coloniali, colpiscono due macrofenomeni, l’uno tragicomico, l’altro solo tragico.
Il primo concerne la pulsione a ripercorrere sentieri già battuti e abbandonati da parte delle ex potenze coloniali, non solo attribuibile all’accennato impiego di cartografie sedative. Le vecchie glorie francesi, inglesi, turche, persino italiane sono scese in campo contro le fresche forze locali, venendone agilmente usate, irrise e rispedite a domicilio. I nipoti dei nostri ascari ci trattano da ascari e continueranno a farlo finché non smetteremo immotivati complessi di superiorità. Almeno loro la storia la studiano. E lavorano su buone carte. Non sapremmo spiegarci perché, ma la pur tardiva constatazione obamiana che a scimmiottare Lawrence d’Arabia si rischia l’osso del collo non sembra intaccare i riflessi pavloviani di alcune attardate cancellerie euroccidentali o neo-ottomane. Mettere il dito nelle guerre civili (si fa per dire) islamiche, senza disporre delle risorse necessarie a dominarle – per esempio la disponibilità dei nostri cittadini a morire per Tripoli o Damasco, qualora non siano jihadisti immigrati o convertiti – significa al meglio perdere la faccia. Al peggio, gettare benzina sugli incendi, prolungandoli e diffondendoli, salvo scoprire di non ambire più a travestirsi da pompieri per accennare a estinguerli.
L’altro consiste nella sanguinosa competizione fra potentati autoctoni per la spartizione delle spoglie dei pallidi staterelli postimperiali – il diminutivo è riferito alla vigenza istituzionale, non all’estensione territoriale, tra loro in rapporto spesso inversamente proporzionale. Per analizzarne origini, dinamiche e poste in gioco, serve un carotaggio geopolitico, un’archeologia dei poteri effettivi che ne scavi le radici, spingendosi oltre le partizioni superficiali e le classificazioni strumentali. Non possiamo pretendere di applicare il principio di non contraddizione o le certezze del rational choice ai conflitti in questione. Ne scaturirebbe il diagramma di un tutti contro tutti che ecciterà gli orientalisti ma confonderà gli osservatori non partigiani. Questo tsunami conviene studiarlo su più scale, dalla macroregionale alle locali (villaggi, quartieri metropolitani, territori tribali, corridoi criminali eccetera). Qui solo qualche nota sulla dimensione macro.
La tentazione di coglierne lo stigma religioso per erigerlo a chiave ermeneutica universale è forte. Perché esprime un dato di realtà. I teatri dei conflitti caldi e freddi in corso sono animati in netta prevalenza da maomettani di vario orientamento settario e diversa matrice etno-culturale. Gli stessi attori, per tacere dei media occidentali, amano insistere sullo spartiacque confessionale— sciiti versus sunniti – così patente in Libano, Siria, Iraq e nelle petromonarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa. Meno esposta, ma sentita, la partizione arabi/persiani, spesso malintesa come riflesso etnico dello scontro sunniti/sciiti. Risuonano ancora nella regione le ultime parole di Saddam sulla forca: «Attenti ai persiani!» – marchio applicato ai «suoi» sciiti, a partire dal loro capo non solo spirituale, il grande ayatollah Ali al-Sistani, arabofono dall’accento marcatamente farsi. Spiccano infine le fratture interne alla costellazione sunnita, specie fra salafiti di scuole e inclinazioni rivaleggianti. Su tutte, la contesa fra wahhabiti dei deserti arabo-sauditi e aderenti alla galassia dei Fratelli musulmani lungo l’arco delle ex «primavere», che volge a favore dei primi.
Nella casa terrena dell’islam però non si disputa solo dottamente fra teologi. Ci si batte a colpi di kalashnikov, missili e armi chimiche per concrete poste geopolitiche, economiche e di prestigio. La setta o la confraternita religiosa conta, eccome. Intenderla unica determinante significa tuttavia scartarne la dimensione strumentale: le confessioni servono i poteri in lotta assai più di quanto questi proteggano quelle. Una guerra santa si vende meglio di una guerra di mera conquista. Dio aiuta a reclutare teste calde, avventurieri, disperati.
Islam contro islam, certo. Magari credendo davvero nella restaurazione del califfato. Ma ora e qui, nel nostro spaziotempo breve e stretto, la contesa riguarda ambiti limitati, spesso minimi, talvolta simbolici. Provvisori emirati. Per conquistarli, la maggior gloria di Dio è impulso supremo. Pure, alla fine della giornata bisogna portare a casa bottini tangibili, non escluso il vil denaro, come insegnano i narcojihadisti maghrebini o i banditi che infestano le macerie di Siria agitando la bandiera del Profeta.
Nella nostra mania ordinativa, noi occidentali amiamo attingere a un altro terribile semplificatore, il marchio al-Qa‘ida, esibito da jihadisti specialmente efferati. È così soddisfatta la sete evangelica di scernere il grano dal loglio, gli improbabili volterriani della «primavera» d’Oriente dai tagliagole dell’«inverno» islamista. Bene contro Male. Alastair Crooke, fine analista britannico, parla più correttamente di una «idea» georeligiosa da noi chiamata al-Qa‘ida, denominazione sfruttata dai suoi pochi iniziali gestori per offrire l’impressione di una grandiosa rete panislamica che non è mai esistita [7]. I qaidisti hanno tratto dalle antiche vittorie contro i crociati la lezione che gli infedeli non si liquidano nello scontro frontale, ma nello sfinimento di mille punture di spillo, alternate a clamorose esibizioni di forza asimmetrica (Torri Gemelle). A ciò si dedicano cellule diffuse nel corpo dei regimi corrotti della dar al-islam – il primo obiettivo da annientare – per attirarvi i nuovi crociati. Esponendo l’insostenibile divario fra retorica e azioni, fra ambiziosi proclami ed effettive umiliazioni delle potenze infedeli. Così facendo perdere la testa a piccoli e grandi Satana, impantanati in insostenibili guerre di logoramento, combattute per «salvare la faccia». Fino a quando non suonerà la ritirata.
La storia del dopo-11 settembre non parrebbe dar loro torto. Ma una cosa è allestire brillanti trappole contro le potenze occidentali, altra erigere il califfato universale. Non si torna all’età dell’oro. Le rivoluzioni più o meno abortite del Nordafrica e del Levante segnalano comunque che in quei devastati crogiuoli, non solo arabi e musulmani, stanno semmai maturando i semi di una modernità sui generis. Qui i giovani subiscono influenze estranee al mondo dei padri, in ambienti urbanizzati dunque incoerenti alle logiche notabiliari del villaggio, ai codici tribali, all’autoritarismo dei vecchi leader legittimati dai colpi di Stato o dalle rivolte anticoloniali. Si affaccia sulla scena pubblica una generazione frustrata da condizioni di vita spesso estreme, comunque incompatibili con le sue aspettative di benessere e di protagonismo. Nessun regime della regione è incontestato, con la relativa eccezione del Marocco e del suo ben consigliato monarca, pur sempre discendente dal Profeta. La collisione fra strutture sociopolitiche disfunzionali e giovani energie continua a produrre scintille di rivolta. L’esito dello scontro resta aperto. Solo se e quando ne scaturirà un qualche nuovo equilibrio potremo considerare esaurita l’età dei torbidi nelle terre islamiche, a partire da quelle per quattro secoli attribuite al sultano/califfo di Istanbul.
3. La partita avviata nell’Africa mediterranea si decide tra Levante e Golfo. Il duello decisivo è fra Arabia Saudita e Iran, con i rispettivi satelliti. Tra questi finora irriducibili nemici devono scegliere non solo vecchi ed emergenti poteri del Vicino e del Medio Oriente, ma anche Israele – che sull’incubo del nucleare iraniano sta modulando da una dozzina d’anni la sua intransigenza geopolitica – Stati Uniti, Russia, Cina. Financo noi italiani ed altri europei mediterranei, a ridosso dell’epicentro del sisma. Per scegliere bene, dobbiamo chiarire a noi stessi quali siano gli schieramenti, i rapporti di forza e le poste in gioco. Ad oggi, potremmo azzardare la seguente sinossi.
A) La fase eroica delle rivoluzioni di Tunisia e d’Egitto si è presto esaurita, con esiti particolarmente sanguinosi all’ombra delle piramidi. Le ingenue avanguardie della prima ora sono state liquidate o si sono suicidate facendosi manipolare dai poteri che avrebbero voluto pensionare.
B) La profilassi controrivoluzionaria distillata a Riyad e sostenuta dal Consiglio per la cooperazione del Golfo – la confraternita dei petromonarchi, sorta di Santa Alleanza guidata dal custode saudita delle due sacre moschee – ha subito ottenuto successi impressionanti. L’obiettivo era fermare il contagio alle soglie della Penisola Arabica. Per ora è stato raggiunto, con tre tempestive contromisure, scattate quasi contemporaneamente nel marzo 2011: l’invasione saudita del Bahrein in tumulto; il colpo di Stato nella Libia, oggi somalizzata, in cui si sono sovraesposti i troppo ambiziosi qatarini (presto riportati a più banali consigli dai «cugini» di Riyad); la distribuzione di sussidi a pioggia ai propri sudditi, attingendo a piene mani alla peraltro non inesauribile rendita energetica.
C) Mentre stoppava i rivoluzionavi cosiddetti «laici», nel quale l’Occidente solipsista amava specchiarsi, l’Arabia Saudita ne profittava per regolare i conti con i rivali più pericolosi nell’ambito sunnita, quei Fratelli musulmani che avevano destramente cavalcato la prima onda delle rivolte, avendo trovato nel Qatar – deciso a smarcarsi dal grande fratello saudita – un troppo visibile sostegno mediatico (Aljazeera) e finanziario. Il colpo di Stato del generale al-Sisi, a protezione dei poteri forti egiziani, sia musulmani che cristiani, ha goduto del fondamentale appoggio saudita. In Egitto, lo «Stato profondo» è deciso a sradicare una volta per tutte la mala pianta della Fratellanza, annientandone non solo la leadership politica ma soprattutto la formidabile rete socio-religiosa. I contraccolpi per i Fratelli sono evidenti in tutta la regione. Ne deriva fra l’altro il passaggio alla lotta armata di alcune frange di quell’arcipelago, che un tempo presidiava il poroso confine fra radicalismo islamista e terrorismo.
D) Lo scontro si condensa quindi intorno alla linea di faglia collocata tra Mediterraneo orientale e Oceano Indiano. Epicentro geologico (idrocarburi di terra e di mare), geoenergetico (competizione intorno alle infrastrutture di esportazione di gas e petroli), georeligioso (sunniti contro sciiti, in variabili declinazioni), etnico (arabi versus persiani, una storia infinita). Infine geopolitico: Arabia Saudita contro Iran. Due aspiranti egemoni regionali che dopo la nascita di Israele si sono alternativamente alleati con l’«entità sionista», disconosciuta da entrambi, per meglio fronteggiare il rivale.
La Siria è il terreno di scontro militare fra sauditi e iraniani. I primi vi appoggiano i «propri» ribelli, insieme ma anche in concorrenza con Turchia e Qatar. I secondi puntellano il regime degli Asad, d’intesa con l’Hizbullah libanese e il governo sciita di Baghdad. Una carneficina infinita, che sta annientando la Siria – tale solo nella deviante cartografia ufficiale – e minaccia di espandersi alla regione, coinvolgendo lo stesso Israele. Nella mischia hanno appena rischiato di finire – insieme agli irredimibili britannici e francesi, fermi all’ora di Sykes-Picot – nientemeno che Stati Uniti e Russia. Esito scansato, ma per quanto tempo e a quale prezzo?
La guerra di Siria conferma che i troppo astuti manipolatori finiscono spesso manipolati. Le potenze che si illudono di controllare le rispettive milizie scoprono che nella deriva siriana, dove si regolano contestualmente, senza risparmio di sangue, dispute domestiche e regionali, rivalità settarie e tra micropoteri, dove dilagano i criminali e si gioca senza regole che non siano la propria sopravvivenza al prezzo di quella altrui, nessuno è davvero al comando. Padrini e padroni sono fungibili. Combattenti sensibili solo alla bassa aritmetica dello scontro illimitato se li scambiano in un macabro gioco, fra le rovine di grandiose civiltà trascorse. Persino i sauditi cominciano ad accorgersene. Molti dei jihadisti di loro fiducia, sfuggiti al controllo delle filiere tribali transnazionali che dalla profonda Arabia si diramano nel Levante siriano e non solo, una volta consumata la mattanza tra Damasco e Aleppo rientreranno al capolinea saudita, più armati, addestrati e bellicosi di prima, pronti a scagliarsi contro gli attuali ufficiali pagatori. Afghanistan, Algeria, Bosnia, Cecenia, Iraq e le altre campagne jihadiste non hanno insegnato abbastanza a nessuno. Certo non alle velleitarie potenze europee e occidentali, che dovranno gestire le loro quote di jihadisti di ritorno nel cuore delle nostre metropoli.
E) In vista del round decisivo, quello che deciderà quale tra i duellanti potrà fregiarsi del titolo di potenza islamica egemone nella regione – sempre che non si debilitino a vicenda, accentuando il caos – Arabia Saudita e Iran hanno mobilitato ogni risorsa utile. Senza vincoli di fede. E su scala mondiale.
Il re saudita ha da tempo scoperto di condividere con l’Israele di Netanyahu l’orrore per l’Iran, semmai in forma più virulenta. Ne è conseguito il triangolo strategico Washington-Gerusalemme-Riyad, venduto al campo sunnita come fronte rivolto contro la penetrazione del «crescente sciita» irano-iracheno-siro-libanese nella Penisola Arabica, a partire dalle province orientali saudite e dagli emirati affacciati sul Golfo, cuore del tesoro energetico che tiene a galla le petromonarchie. La corte di re ‘Abdallah ha inteso così spingere americani e israeliani a combattere la sua guerra contro l’Iran.
Ayatollah e pasdaran hanno invece puntato sulla protezione della Russia e della Cina. Anche qui nulla di ideologico, men che meno di religioso. Nella partita siriana Putin ha aperto il suo ombrello strategico a difesa dell’alleato di Teheran non solo per proteggervi l’estremo residuo della sfera d’influenza sovietica (ergo russa) nel Mediterraneo ma soprattutto per impedirvi il trionfo saudita. Se prevalessero i jihadisti reclutati da Riyad e associati, cadrebbe l’ultimo bastione territoriale che si frappone alla formazione di una «dorsale verde» ininterrotta dalla Penisola Arabica al Caucaso. Si capisce perché, quando lo scorso luglio il principe saudita Bandar si è invitato a casa Putin avvertendo il leader russo di disporre a piacimento dei jihadisti di Cecenia (altra illusione?) e cercando di convincerlo ad abbandonare al-Asad con la carota di mirabolanti investimenti e parallelismi geoenergetici, mentre agitava il bastone della non velata minaccia di rovinargli le imminenti Olimpiadi invernali di Soci, ai piedi del Caucaso, sia stato rispedito al sovrano mittente [8].
Quanto alla Cina, la fame di energia la spinge verso il Golfo. Di qui il dialogo permanente e qualche fruttuoso accordo fra Teheran e Pechino, senza curarsi della disputa sul nucleare iraniano, che non turba più di tanto la leadership cinese. Sempre nei limiti della politica estera dei «mandarini rossi», tutta pragmatica e di basso profilo, nel timore di restare impigliati in contenziosi altrui.
4. A un primo sguardo, lo schieramento pro-Iran non pare dunque all’altezza del triangolo allestito da Arabia Saudita, Stati Uniti e Israele. Ma attorno al Golfo qualcosa si muove. Teheran cambia passo per disincagliarsi dalle secche in cui la gestione Ahmadi-Nejad l’aveva dirottata e aprirsi al mondo. Riyad scopre che al-Asad è osso molto più duro del previsto, che Obama non vuole immolarsi per i decrepiti custodi di Mecca e Medina e che persino il muro opposto dagli israeliani contro la tentazione di vedere il gioco iraniano esibisce qualche crepa.
L’accordo in extremis fra Stati Uniti e Russia sullo smantellamento dell’arsenale chimico, sigillato in sede Onu, segna un punto di svolta. Evento in parte fortuito, frutto dell’insipienza strategica e delle faide interne all’establishment americano, mentre il pubblico stanco di guerra, che aveva eletto due volte Obama perché chiudesse le disastrose crociate di Bush, si oppone al velleitarismo militarista di chi in nome del do something sarebbe pronto a ficcarsi nel tritacarne siriano. Ma anche prodotto del tatticismo di Putin, incline, da rodato scacchista, a calcolare le conseguenze di ogni mossa, quanto agile, da ottimo judoka, nel far leva sulla forza altrui. Per infliggere una paradossale eppure pungente lezione di etica pubblica ad Obama, invitandolo a moderare il suo retorico eccezionalismo di stampo wilsoniano giacché «Dio ci ha creati uguali» [9].
Se gli effetti del contropiede russo hanno valicato i confini della Siria e persino del Medio Oriente, movimentando le equazioni globali di potenza, lo si deve però all’elezione di Rohani alla presidenza della Repubblica Islamica, nel giugno scorso. Non un rivoluzionario e nemmeno un riformista. Un intelligente servitore del regime, un religioso uso di mondo scelto dalla Guida suprema Ali Khamenei e dall’establishment moderato per finirla con l’avventurismo dei pasdaran raccolti attorno ad Ahmadi-Nejad, che stava mettendo in questione l’eredità di Khomeini. In pochi mesi Rohani, coperto da Khamenei, ha ribaltato la politica estera del predecessore, calibrando retorica e diplomazia fine in vista di due scopi: rassicurare americani e occidentali sulla rinuncia iraniana alla Bomba, in cambio della graduale abolizione delle sanzioni e della riammissione del suo paese nei circuiti politici ed economici globali; offrire la Repubblica Islamica come àncora di stabilità regionale, devota solo al pragmatismo degli interessi, avversa alle improvvisazioni e al radicalismo messianico. Una nazione, non una causa.
Lo scambio estivo di segreti messaggi tra Rohani e Obama, culminato nella telefonata del 27 settembre, rimette Teheran al centro della partita geopolitica mediorientale. Giocata da regimi contestati, fatiscenti, perciò pronti a scatenare l’inferno pur di guadagnarsi qualche altro anno di vita. Il terrore di perdere tutto spiega la controrivoluzione saudita, carta della disperazione di una dinastia beduina legittimata dai petrodollari più che dalla sacra custodia. Anche il regime clerical-militare di Teheran non è troppo sicuro di sé, ma poggia su una società civile meno compressa e più evoluta di quelle dei dirimpettai arabi. La memoria dell’impero persiano ha una pregnanza identitaria incomparabilmente superiore alle tradizioni tribali della Penisola Arabica, dove le sovranità dinastiche d’impronta salafita esprimono i recenti incroci fra famiglie reali allargate e relativi pozzi di petrolio o giacimenti di gas, santificati da ‘ulama’ aggrappati a intenibili purismi ma caldamente invitati a non immischiarsi in politica. Un equilibrio costantemente minacciato dalle minoranze sciite, dai giovani assetati di mondo, dalle donne stanche di umiliazioni, dai fermenti delle manovalanze allogene schiave di imprenditori arabi ipnotizzati da megalomanie architettoniche. L’odio degli epigoni di ‘Abd al-‘Aziz al-Sa’ud per la Repubblica Islamica non è dunque teologia, ma coscienza che sull’altra sponda del Golfo è installato un contromodello, a suo tempo fondato sul potere temporale delle guide religiose, sul compromesso fra le minoranze etnico-confessionali e su elezioni non sempre manipolate. Un islam politico intollerabile per l’islam antipolitico di casa Sa’ud.
Il principe Bandar, capo dell’intelligence e massimo architetto della triangolazione con i crociati d’America e gli ebrei d’Israele, amava ripetere che il rapporto con Washington è un matrimonio cattolico, condannato a resistere a ogni turbolenza. Il ministro degli Esteri, principe al-Faysal, lo correggerà: «Non è un matrimonio cattolico, è un matrimonio islamico», a indicare che il re saudita si considera abilitato a procurarsi fino a quattro mogli [10]. Dopo l’11 settembre, Israele è una di queste. Il guaio è che ormai anche Obama si sente più libero. Non di sposare qualcuno: impossibile per la «nazione indispensabile». Ma di flirtare sì, se utile a proteggere il declino americano da sfide insostenibili. La telefonata con Rohani non annuncia alcun fidanzamento, solo l’inizio della fine di un’ostilità ormai inutile se non pericolosa per entrambi. Ma è già troppo per Riyad e Gerusalemme. Per loro crolla un mondo. È tempo di adattarsi al nuovo. O di opporvisi con tutte le forze e nessuno scrupolo. Prepariamoci alla controffensiva israeliana e saudita. Nel campionato mondiale del Golfo la finale deve ancora cominciare.
NOTE:
[1] Cfr. R. LACEY, Inside the Kingdom. Kings, Clerics, Modernists, Terrorists and the Struggle for Saudi Arabia, London-New York 2010, Random House, p. 302.
[2] Citato in M.K. BHADRAKHUMAR, «Obama Invites Rouhani to Join Great Game», Asia Times, 16/9/2013, atimes.com/atimes/Middle_East/MID-04-l60913.html
[3] «Statement by the President», The White House, Office of the Press Secretary, 27/9/2013.
[4] Cfr. T. RAMADAN, The Arab Awakening, Allen Lane/Penguin Books, London-New York 2012.
[5] H. ROUHANI, «Why Iran Seeks Constructive Engagement», The Washington Post, 20.9.2013.
[6] M. CERIC, «Sunni-Shiite Relations Are Vital for Regional Stability», The Daily Star, 10/9/2013.
[7] Cfr. A. CROOKE, «The Inevitable Has Happened in Egypt», al-Monitor, 23/8/2013.
[8] Cfr. il resoconto dell’incontro Putin-Bandar pubblicato da al-Safir , «Russian President, Saudi Spy Chief Discussed Syria, Egypt», 21/8/2013, www.al-monitor.com/pulse/politics/2013/08/saudi-russia-putin-bandar-meeting-syria-egypt.html
[9] V. PUTIN, «A Plea for Caution from Russia», The New York Times, 11/9/2003.
[10] CFR. R. LACEY, op. cit., p.292