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 2013  ottobre 23 Mercoledì calendario

«MORTE E RESURREZIONE TRA LARVE, SCARABEI E CORVI»

Bernd Heinrich vive recluso nel Maine, in una foresta che per lui - biologo settantaduenne, professore emerito alla University of Vermont - non è solo un luogo dello spirito ma un laboratorio a cielo aperto. Al Festival della Scienza di Genova, giovedì 31, racconterà le sue ricerche, aggredendo un tabù che ci avvolge: la lezione si intitola «Le tante bellezze della morte nel regno animale».
Professor Heinrich, qual è l’inquietante e di sicuro controintuitivo rapporto tra bellezza e morte?
«Morire può essere orribile. È un processo. E io vedo la morte come un risultato inevitabile. Vedo invece la bellezza come una realtà positiva, che percepiamo. Si tratta di un adattamento biologico che ci guida nella giusta direzione, verso ciò che è rilevante per la vita stessa: la bellezza fisica, infatti, ha un valore adattativo per la riproduzione, quella che vediamo nel cibo si lega a ciò che mangiamo e quella dei paesaggi ai luoghi dove vivere. Questi tre tipi di bellezza si riferiscono a specifici dettagli, diversi a seconda delle specie. Per noi, esseri sociali e intelligenti, la bellezza si trova anche nelle relazioni tra le cose, tanto che le vediamo connesse in ciò che definiamo “realtà” o “verità.” Quanto alla morte, se la si osserva da vicino, può essere considerata come la fine. E come il possibile contenitore di ogni sorta di orrori. Ma la possiamo anche considerare come un inizio, dal momento che è la fonte di un’altra vita: ricordiamoci che non c’è vita senza morte. La possiamo quindi concepire come la reincarnazione fisica all’interno dell’ecosistema. Attribuirle una forma di bellezza, però, richiede prima di tutto concepirne la “verità” universale e la necessità sul lungo termine. Richiede anche la capacità di concepire la natura come immensamente grande e bella e una realtà di cui vogliamo continuare a far parte. La bellezza che vediamo, perciò, dipende dalla nostra conoscenza e dal nostro grado di consapevolezza».
Lei è autore di «Life Everlasting», dedicato alla varietà di manifestazioni della morte: come le è venuta un’idea del genere?
«E’ stato un processo molto lungo! Da bambino collezionavo scarabei e li trovavo molto belli. Mi piacevano soprattutto quelli corridori, i carabidi. Poi, però, scoprii quelli neri e arancio, specializzati nel seppellire i cadaveri di piccoli mammiferi e uccelli. Ero affascinato dal fatto che da una di quelle carcasse potessero schiudersi una decina di scarabei. Mi sembrava una specie di reincarnazione. Diventai così fisiologo e studiai la fisiologia della metamorfosi: la larva o il bruco che si trasformano in uno scarabeo o in una farfalla mi sono apparse come resurrezioni degne di una fiaba. Non ci sono più confini, ma solo il flusso di uno nell’altro attraverso l’intero ecosistema. La morte diventa il legame che unisce tutto. È una realtà che mi apparve ancora più cruenta nel momento in cui osservai i corvi e gli avvoltoi. Ma si trattava, ancora una volta, di pura ecologia, tanto da sembrare astratta. Poi un amico mi chiese di farsi seppellire nel mio bosco, così che le sue spoglie potessero “resuscitare” in tanti corvi, quando il momento fosse stato opportuno. Ovviamente non potevo dirgli di sì, ma avevo passato così tanto tempo a guardare gli scarabei al lavoro davanti alla porta di casa che la richiesta mi rimase impressa. Ciò che facevano quegli animali era più interessante e complicato di quanto avessi mai pensato. Mi riportarono alla mente i calabroni che avevo seguito per anni e, naturalmente, i corvi, per i quali sento una forma di adorazione».
Che tipo di esperimenti conduce nel New England?
«Beh, presumo che lei si riferisca a quelli con le carogne. A proposito di scarabei, sono sempre stato impressionato dalla combinazione cromatica - nero e arancio - di alcuni di loro, ideata per spaventare i potenziali predatori. Quando si osserva l’istante in cui alcuni prendono il volo, il colore dominante, invece, diventa il giallo, che serve a imitare quasi perfettamente alcuni tipi di calabroni. È un trucco incredibile! E un’altra osservazione sorprendente l’ho fatta con i bachi: ne ho visti decine di migliaia scattare dalla carcassa di un porcospino, viaggiando in un’aggregazione simile a una lumaca. Mi sembrava incredibile che potessero comportarsi in questo modo e che ci fosse tanta bellezza in questa soluzione! Così ho continuato a fare esperimenti con molte altre carcasse».
C’è un episodio che le è rimasto impresso?
«Mi viene in mente la volta in cui mi trovavo in cima a un pino, seminascosto tra i rami. Avevo sistemato una capra morta e speravo che un corvo la trovasse. Dopo alcune ore, però, un’auto si fermò nelle vicinanze e un uomo attraversò il campo, fino al bosco dov’ero. Penso che abbia notato le mammelle dell’animale e allora gridò al compagno: “E’ una capra!”. Scoppiai in una risata e lui, alzando lo sguardo, mi vide e mi chiese che cosa stessi facendo. Gli risposi che stavo lì a osservare i corvi. E, quando se ne andò, sentii che diceva: “C’è un pervertito che guarda i corvi!”».
Perché ha scelto di vivere lontano dalla civiltà?
«Perché sono nel mio luogo di studio. Posso sfruttare la conoscenza dei luoghi, capire ciò che è nuovo e interessante. E vedo novità in continuazione. Mi trovo a 10 km da dove sono nato: questa è la mia casa e qui tutto ha un valore».
Lei ha scritto che siamo così separati dalla natura da esserlo anche nella morte.
«E’ proprio così! Tutti i nostri maggiori problemi saranno risolti una volta che impareremo, proprio come fanno molti animali, a limitare la nostra riproduzione. Pochissime persone riescono a percepire cos’è un ecosistema e sono ancora meno quelle che ci vivono. E allora come potrebbero preoccuparsene? L’educazione, quindi, è una necessità. Siamo una specie intelligente e sono certo che individueremo le giuste soluzioni, con la consapevolezza che è proprio la bellezza che deve venire prima di tutto».