Giorgio Mulè, Panorama 24/10/2013, 24 ottobre 2013
SONO IL CAPITANO ULTIMO E VI DICO: STATE IN GUARDIA DA UNA CERTA ANTIMAFIA
[Sergio De Caprio]
Intervistare Sergio De Caprio non è facile per me. Ero un ragazzino quando ci conoscemmo, anzi quando io lo conobbi, perché lui neanche sapeva chi fossi. Era il 1987, eravamo a Bagheria in provincia di Palermo. Io, diciannovenne, ero un «biondino», cioè un cronista in erba al Giornale di Sicilia. Sergio De Caprio aveva due stellette sulle spalline della divisa, che già all’epoca indossava assai di rado. Era un tenente e comandava la compagnia del paese, un avamposto di Cosa nostra. I carabinieri, i «suoi» carabinieri, avevano catturato un latitante e io andai a Bagheria per sentire le notizie dell’arresto. Seppi solo più avanti che De Caprio era arrivato al latitante stando ossessivamente alle calcagna di un sorvegliato speciale: per la Festa della mamma, il compare del mafioso aveva acquistato più cannoli di ricotta del solito. Non so perché, ma da questo particolare il tenente intuì che si sarebbe incontrato con il latitante. Aveva ragione.
Ci ritrovammo 6 anni dopo, a Palermo, la mattina del 15 gennaio 1993 alla caserma Bonsignore. L’uomo che avevo davanti non si chiamava più Sergio De Caprio. Era il capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri che quella mattina aveva arrestato Totò Riina. Era già all’epoca una leggenda per i suoi uomini e per l’Arma, lo divenne anche per gli italiani grazie pure alle fiction con Raoul Bova nei suoi panni. Ma a Palermo, in quella procura capace d’infangare gli eroi, alcuni pubblici ministeri lo trattarono di lì a poco come un amico dei mafiosi. E così hanno fatto (e continuano a fare) con alcuni suoi colleghi e perfino con il suo capo e maestro, l’ex colonnello Mario Mori, tornato di prepotenza al centro delle cronache il 15 ottobre scorso a causa delle motivazioni della sentenza con cui in luglio era stato assolto a Palermo dall’accusa di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. In quelle motivazioni i giudici demoliscono i pregiudizi della procura, scrivono che Mori è del tutto innocente, ma anche che l’ipotesi della trattativa fra Stato e Cosa nostra non sta in piedi.
Siamo diventati amici io e Ultimo. Oggi lui è colonnello (vedere il riquadro a pagina 80), io dirigo un settimanale. Ci incontriamo nella riserva che ha creato a Roma (vedere l’articolo a pagina 82), un’oasi di altruismo e beneficenza. Per tutta la durata dell’intervista tiene un’enorme aquila reale sul braccio, l’ultima arrivata. Sono passati vent’anni dall’arresto di Riina, oggi Ultimo ha 52 anni.
Vent’anni dopo, la lotta alla mafia, e quindi l’azione dell’antimafia, ha fatto passi avanti? O sono state perse delle occasioni?
Ti ricordi Bagheria? Quando ho iniziato io, combattere Cosa nostra era una cosa bella ed entusiasmante. Era una lotta fatta da gente semplice che si voleva bene, che amava la giustizia. Gente lontana dal potere, dallo spettacolo, dalle invidie… C’era un clima sano e per questo si lavorava bene.
Stai parlando della Sicilia degli anni Ottanta.
Io vado in trincea, cioè sulla strada, nel 1987. Il clima di cui parlavo era quello costruito soprattutto da Giovanni Falcone. Era lui che in solitudine e tra mille ostacoli portava avanti questa bella battaglia di civiltà, di amicizia, di dignità, di giustizia. Poi le cose sono andate male, perché hanno iniziato a odiare lui.
L’antimafia dei veleni.
Lo odiavano tanti suoi colleghi e lo hanno distrutto come uomo e come magistrato. Lo hanno sovraesposto. Lo hanno indicato come bersaglio alla mafia. E Totò Riina ha saputo colpire. In questo senso, si possono considerare i mandanti morali della strage di Capaci.
Accusa indimostrabile.
Non lo dico io, lo dicono i fatti. È la storia.
Ma Falcone era un bersaglio e un nemico giurato di Cosa nostra…
Certo, ma quelle persone l’hanno obbligato ad andare via da Palermo, lo hanno delegittimato, lo hanno lasciato solo e Riina ha colpito. Da quel momento in poi il clima è diventato diverso.
Che cosa è cambiato?
È saltato tutto, l’antimafia non è stata più una lotta di popolo ma di fazioni, è stata e viene ancora oggi usata per costruire carriere politiche, per assumere potere all’interno delle diverse strutture che si occupano di mafia.
Descrivi l’antimafia come un treno sul quale saltare per interessi personali?
L’antimafia è diventata spettacolo, un gran bel business per alcuni. Ci sono giornalisti che hanno fatto carriera all’interno del proprio giornale, gente che ci ha fatto proprio i soldi, altri ci fanno perfino teatro: una vergogna, mangiano sulla memoria di chi è morto.
Proviamo a fare degli esempi. Accennavi al teatro e non è un mistero che Marco Travaglio da tempo fa uno spettacolo, si chiama «È stato la mafia». In questo modo pensi che venga calpestata la memoria di Falcone, spettacolarizzando le vicende avvenute dopo la sua morte?
È antipatico parlare di Travaglio e non citare tantissimi altri. Io parlo di fatti e non di persone. Mi riferisco a quelli che invece di fare lotta alla mafia fanno business, spettacolo, politica. Sono come capi delle tifoserie, mentre invece dovrebbe esserci un fronte unico che si chiama Stato. Secondo me ci sono persone che hanno rotto questo fronte per interessi personali e questo è un reato morale gravissimo. Pensa alla felicità di Riina a sentire chi delegittima lo Stato, chi insinua il dubbio fino a sporcare i massimi livelli istituzionali, fino alla presidenza della Repubblica. Te la faccio io una domanda: questo è o non è oggettivamente un favore alla mafia?
Certamente sì, soprattutto per l’uso distorto che è stato fatto di notizie come quelle che riguardavano la presidenza della Repubblica.
Questa non è antimafia, è qualcos’altro. Non è necessario fare nomi.
Direi che è superfluo, basta guardarsi intorno.
Appunto. I giovani vedono tutti questi soloni che parlano, che scrivono che la mafia è tutto e dovunque, e sono confusi. Ecco, questi cattivi maestri devono stare lontani dalla lotta alla mafia, non devono dividere il fronte antimafia come hanno fatto e continuano a fare. Ai ragazzi dobbiamo dire: «Attenti a questi cattivi maestri», tutto qua. La lotta alla mafia deve essere una materia che unisce, non che divide.
Che cosa dice oggi Sergio De Caprio di Ultimo? Come lo vede dopo tutti questi anni e dopo tutto quello che gli è successo?
Ultimo mi sembra sempre un bravo ragazzo che cammina sul filo senza rete sotto come fanno i funamboli. Ha ancora voglia di parlare di libertà, di dignità, di umiltà, di povertà… Non vuole diventare né generale né conduttore televisivo, né capo di un partito: non vuole essere niente, vuole sparire e lasciare il suo posto a ragazzi semplici che ragionino con la loro testa, che non si facciano plagiare dai cattivi maestri, che non diventino schiavi dell’ambizione e della superbia, che abbiano la voglia di ribellarsi ai pagliacci e alle regole quando diventano oppressione della povera gente. Direi che Ultimo mi sta ancora simpatico.
Proviamo a semplificare: Ultimo è stato un folle o ha solo svolto correttamente il suo lavoro?
Ultimo è stato un ribelle, pur non volendo essere un ribelle. È stato un ribelle contro se stesso prima di tutto e poi contro l’ipocrisia e contro l’ingiustizia. Lo conosci: è una persona che parla con te come parla con i poveri. Non vuole dimostrare niente, tranne il fatto che esiste una cultura militare colma di valori che vanno al di là del contratto e delle logiche del lavoro. Sono valori che consentono a noi soldati di dividere le cose che abbiamo in parti uguali, che ci danno il coraggio di affrontare il pericolo e la morte con gioia, sentendoci una cosa sola col popolo di cui siamo figli.
Il capo di Ultimo, l’ex colonnello Mario Mori, è stato ed è ancora accusato di essere un complice della mafia. Che effetto ti fa, ancora oggi dopo vent’anni, vedere Mori additato come un traditore dello Stato?
Se non ci fosse da piangere, direi che mi viene da ridere. È uno di quei fatti che distorcono la realtà e su cui molte persone hanno impostato le proprie carriere. Dobbiamo dare solidarietà al mio comandante e semplicemente ricordarci che, per noi soldati straccioni, rimane un esempio di coraggio e di semplicità, un esempio raro e prezioso di capacità tecniche nella lotta alla mafia. Dobbiamo contrapporre a tante menzogne la verità. Bisogna spiegare alla gente che la lotta alla mafia non la fanno Giovanni Brusca e i collaboratori di giustizia, e neppure i figli dei mafiosi. La lotta alla mafia la fanno le persone oneste, i carabinieri, i poliziotti che ogni giorno stanno sulla strada e che collaborano con dei bravi magistrati. Niente a che vedere con le star delle televisioni e con gli adulatori delle folle, ma autentici servitori dello Stato.
I giudici nelle pagine di motivazione della sentenza che ha assolto Mori hanno sbriciolato l’impianto accusatorio della Procura di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia…
Ho già detto che questa della trattativa è una pagliacciata.
La Corte d’assise di Palermo sentirà il capo dello Stato come teste sui colloqui tra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio, morto d’infarto nel 2012, dopo una campagna denigratoria e infamante. Il pm Antonio Di Matteo ha ribadito in aula: «Se lo Stato vuole essere credibile, deve saper processare se stesso». Lo Stato sta processando se stesso o si mina la sua credibilità?
Io e i miei carabinieri saremo sempre a fianco del presidente della Repubblica. Onore e massimo rispetto per il dottor D’Ambrosio, per la sua storia e per quello che ha fatto a favore della giustizia e del popolo italiano.
Tornando a Mori: è un perseguitato della giustizia?
La giustizia la fanno le persone. E mi sembra che parecchie persone da diversi anni facciano carriera agitando il suo nome e usando la loro funzione pubblica per fare politica, scrivere libri, partecipare a convegni, organizzare spettacoli: tutto ciò è gravissimo e non è persecuzione, ma eversione.
In che senso?
Nel senso di distorsione della funzione pubblica e della verità. È giusto e doveroso ricercare la verità e le prove, diverso è screditare le istituzioni e le persone.
Quando finirà questa persecuzione?
Non finirà mai, perché purtroppo molti su queste trame hanno costruito la loro fortuna e i propri patrimoni economici. Poi cosa si rischia ad attaccare un carabiniere? Niente! Questa potrebbe essere una tecnica della mafia, un modo nuovo di infiltrarsi nelle istituzioni per distruggere la verità. Una cosa squallida.
Ma davvero un gruppo di poche persone, perché alla fine parliamo di poche persone, sono state in grado di condizionare così pesantemente un Paese al punto di far crocifiggere i suoi eroi?
Venti persone hanno creato il mito delle Brigate rosse e hanno messo in ginocchio l’Italia. Riina con pochi mafiosi ignoranti ha messo in ginocchio il Paese. Non c’è da meravigliarsi. Il problema è che quattro o cinque persone abili e scaltre, andando continuamente in televisione, scrivendo sui giornali, sfornando libri, hanno trasformato insinuazioni e dubbi in false verità. E su queste hanno costruito un grande business. Dobbiamo ribellarci a queste manipolazioni delle menti e delle coscienze. Le persone devono aprire gli occhi.
Dopo la cattura di Riina e le disavventure giudiziarie sei passato a occuparti di reati ambientali, che costituiscono uno dei business più redditizi della mafia. Se il fronte antimafia non si fosse frantumato, e se ci fosse stata maggiore unità, si sarebbero potuti avere risultati diversi anche nella caccia ai grandi latitanti?
Ti dico semplicemente che io ho imparato a parlare di quello che faccio. Io svolgo un’azione che mi è stata insegnata da grandissimi maestri. Ricordo ancora il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che rimane un esempio di vita e di tecnica, il generale Mori, il giudice Falcone; ma ho imparato molto anche da magistrati come Ilda Boccassini e tanti altri di cui non faccio il nome ma che porto sempre nel cuore. Queste persone rappresentano un patrimonio dello Stato e del popolo italiano e devono essere messe in condizioni di portare avanti in maniera omogenea, seria e serena la lotta antimafia e non di lottare per la sopravvivenza.
Eppure tu da una parte di chi rappresenta questo Stato sei ritenuto non una risorsa ma un ostacolo. Che senso ha?
Non mi interessa, perché non dipende da me. Io sono a disposizione del mio Paese. Io amo la Sicilia, amo il popolo siciliano, amo la lotta alla mafia e odio la mafia in tutte le sue forme.
Se fossi stato all’estero, magari se fossi stato in America, come sarebbe andata la tua storia?
Credo che in America sarei finito in una riserva indiana accanto ai miei fratelli apache. E comunque preferisco l’Italia all’America.
Torniamo allora da noi: come vivono questa situazione i «tuoi» carabinieri?
Noi nel nostro cuore apparteniamo all’Esercito italiano perché siamo soldati. Vogliamo andare fuori dalle logiche del lavoro, noi non siamo lavoratori, siamo combattenti e vogliamo avere il privilegio di amare e servire il nostro popolo senza limiti, per questo promuoviamo il volontariato militare sulla strada, accanto ai poveri.
Che cosa vuol dire concretamente «volontariato militare»?
Fare i volontari a favore della gente povera. Servire a tavola insieme ai detenuti, tenere per mano i non vedenti e i nostri fratelli diversamente abili. Vogliamo sognare un mondo migliore e lo facciamo stando sulla strada.
Ma il colonnello De Caprio ha mai detto a Ultimo: «Vabbè, basta, ritiriamoci con le aquile perché non ne vale più la pena»?
Ultimo ha sempre vissuto con le aquile, con gli animali, con i poveri, con gli ultimi. Quindi sta bene dove sta. È Ultimo che guarda il colonnello e gli dice: «Vieni con me».
E Ultimo ora che fa?
Insieme ai volontari porta avanti una casa famiglia con otto minori, che ospita sei detenuti minorenni che lavorano ogni giorno insieme a persone disagiate e con loro ha ritrovato i valori della stazione dei carabinieri.
Sembri un chierico di Papa Francesco, non un carabiniere.
Io sono un carabiniere. Padre Francesco è un’altra cosa.
Papa Francesco, non padre Francesco.
Per come lo vedo io, il suo nome è padre Francesco e sono certo che gli piacerebbe essere chiamato così. E siccome l’ho chiamato padre, ogni altra parola su di lui sarebbe sprecata e fuori luogo.
Passiamo all’autocritica. Guardati indietro. Puoi dire: «Guarda, forse ho sbagliato, ho sbagliato in quel momento, quello che ho fatto forse si prestava a essere giudicato come un errore»?
I miei errori li devono giudicare gli altri, perché ovviamente quando tu fai una cosa la fai perché credi sia giusta.
Era legittimo processarti per il covo di Riina?
La questione non è se fosse legittimo o meno. Io questo non lo so. Quello che posso dire è che, poiché sono stato assolto, evidentemente le ipotesi dei pubblici ministeri erano sbagliate. Certamente io ho sofferto molto per questo e, altrettanto certamente, di questo spettacolo pietoso si sono divertiti Riina, Provenzano e i loro amici. È la realtà.
Dal tuo punto di vista è stato regalato tempo prezioso a Cosa nostra creando questo processo contro Ultimo e contro il prefetto Mori per il covo di Riina?
Letta la sentenza di assoluzione, il tempo perso per il processo ha favorito l’associazione Cosa nostra.
Dopo oltre vent’anni non sappiamo ancora la verità sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Tu ci credi all’entità esterna che ha compartecipato alle stragi?
Io credo che dietro Riina ci sia stato Riina, e parlo di quello che risulta a me che ho lavorato sempre sulla strada. Ritengo che minimizzare il ruolo di Cosa nostra nelle stragi sia un’azione criminale e sia di interesse strategico da parte di Riina e dei corleonesi. Credo che delegittimare lo Stato e i suoi servitori sia un’azione ugualmente criminale e sia sempre un interesse strategico di Riina e dei corleonesi. Se dietro Riina c’è qualcuno, ovviamente dev’essere individuato e condannato. Però posso dirti che dietro di me e i miei carabinieri, quando lo abbiamo arrestato, c’era solo la purezza dei sentimenti di giovani carabinieri. C’era solo il profumo dolce e amaro della terra di Sicilia. C’era solo la rabbia di un popolo che ha cercato e trovato giustizia.
Giorgio Mulè
con la collaborazione di Anna Germoni