Paola Jacobbi, Vanity Fair 16/10/2013, 16 ottobre 2013
SONO UNA POVERA RICCA
[Valeria Bruni Tedeschi]
Ho visto un castello in italia al Festival di Cannes, nel maggio scorso. Il giorno dopo la proiezione ho incontrato per strada Marisa Borini, la mamma di Valeria Bruni Tedeschi che interpreta se stessa nel film scritto, diretto e recitato dalla figlia. Mi sono complimentata e lei, con la sua inconfondibile erre moscia, ha risposto: «Grazie. È stato un grosso lavoro».
Il film, che arriva in sala il 31 ottobre, racconta di come, a un certo punto, Marisa e i suoi figli hanno deciso di vendere il castello piemontese di loro proprietà, con tanto di quadri di Bruegel all’interno.
Nel tempo in cui si tratta la vendita, Valeria conosce il suo (oggi ex) compagno, l’attore Louis Garrel che interpreta se stesso nel film, si dispera perché non riesce a restare incinta e, insieme alla madre, condivide l’indicibile strazio di assistere il fratello Virginio (Filippo Timi nel film) mentre muore lentamente di Aids. Tutto questo, nella realtà, non è accaduto in contemporanea, ma la finzione plausibile, la chiave scelta da Valeria, mescola tutto e trova un equilibrio narrativo.
Si è molto chiacchierato dell’assenza di un personaggio ispirato a Carla Bruni, nel film. Che, però, è appunto un film e non un documentario.
Già succedono un sacco di cose e già ci sono un mucchio di personaggi, ci mancava anche la complicazione di una sorella diventata Première Dame.
Il film va bene così. Guardando Un castello in Italia si ride e ci si commuove, ci si identifica (sì, anche noi che abbiamo un cognome solo) e si ammira il coraggio di esporsi da parte di Valeria in questa precisa fotografia di un ambiente, quello degli altoborghesi che a volte piangono, proprio come i famosi ricchi della vecchia telenovela, puntualmente citata.
Sono andata a Parigi a parlarne con lei. Nella conversazione, la parola pronunciata più spesso sarà «lavoro». Tale madre, eccetera.
L’appuntamento è al ristorante della Gare de Lyon di Parigi. Valeria indossa una maglietta rossa con la scritta INSPIRED che fa parte di una collezione lanciata da Gap nel 2007 e appoggia sul tavolo un cellulare di un modello che risale al decennio scorso. Indica il mio smartphone e dice: «Sono molto restia di fronte alle nuove tecnologie. Avrei paura di annegare in un telefono come il suo».
Sua madre ha detto che non avrebbe tollerato che un’altra attrice la interpretasse sullo schermo. È stata la stessa cosa anche per lei?
«All’inizio ci ho pensato. Ma ci sono pochissime attrici bilingui come me, forse l’unica è Chiara Mastroianni con cui, infatti, ho lavorato nel mio primo film. Avevo pensato a Valeria Golino che parla benissimo il francese e che, tra l’altro, è una mia cara amica, ma poi non me la sono sentita di rinunciare a un ruolo che, se me lo avessero offerto altri, non avrei certo rifiutato».
Questo è il suo terzo film da regista, dopo È più facile per un cammello… e Attrici. Ci ha fatti entrare nella sua famiglia e nel mondo della sua professione, possiamo dire che con Un castello in Italia si chiude una trilogia?
«La parola trilogia mi angoscia perché sembra che chiuda tutto, che poi non ci saranno più film. Dopo ognuno dei miei lavori mi sono detta “basta non ne faccio più”. Perché penso di non avere più niente da dire. È una sensazione sgradevole che poi solo il lavoro, a testa bassa, immersa in un altro progetto, riesce a cancellare».
Recitare per gli altri le piace ancora?
«Adoro. Ho appena girato Il capitale umano di Paolo Virzì e approfitto di tutte le interviste per ricordare ai registi che sono qui e che ho voglia di lavorare».
Le persone nate con dei privilegi, come è lei, sono oggetto di molti pregiudizi. Quasi ci si aspetta che inciampiate, prima o poi, puniti dalla vita. Si è mai sentita oggetto di questo tipo di aspettativa negativa da parte degli altri?
«No, però mi rendo conto che ci sono molti pregiudizi rispetto al fatto che, nei miei film, parlo dell’alta borghesia. Anche quando cercavamo i soldi per produrre È più facile per un cammello… è stata dura convincere i finanziatori. La classica risposta è: “Ma che cosa gliene frega alla gente dei problemi di una povera ragazza ricca?”. Si tende, sia in Italia che in Francia, a dare più credito, in tutti i sensi, a un regista che racconta storie ambientate tra le classi disagiate. È un modo di pensare così, per sentirsi più politicamente corretti, immagino».
Ma lei lo farebbe un film sui poveri?
«Io parlo di un mondo che conosco. Racconto storie di persone. E nel mio film ci sono anche quelli che per i ricchi lavorano: gli autisti, le cameriere. Anzi, a dir la verità, avrei voluto che fossero più presenti, come una specie di coro da tragedia greca che commenta quel che succede ai protagonisti».
Perché ha voluto fare l’attrice?
«Perché da ragazza ero molto sola. La prima volta che andai a un corso di teatro, avrò avuto 17 o 18 anni, ho capito che lavorare in gruppo rispondeva al mio bisogno di incontrare gente. Avrei incontrato gente anche se avessi fatto il medico in un ospedale, mi dirà lei, ma il teatro mi dava la possibilità di parlare di me attraverso i personaggi e questo mi ha aiutato a combattere la solitudine».
Fare cinema su eventi privati e tragici come la morte di un fratello e, nel caso di sua madre, di un figlio, può essere terapeutico ma anche molto doloroso.
«Di nuovo, la risposta è il lavoro. Per esempio, nel momento in cui siamo arrivate alla casa di famiglia che ormai non ci appartiene più, avrebbe potuto esserci un momento di emozione intollerabile ma per il solo fatto che la casa stava per diventare un set, che avremmo dovuto riarredarla, che intorno a noi c’era la troupe in attesa di indicazioni, sia io che mia madre abbiamo dominato l’emotività e ci siamo messe, appunto, a lavorare».
Com’è sua madre sul set?
«È molto dotata e professionale perché ha alle spalle la sua esperienza di pianista. Ma, allo stesso tempo, è fantastica perché se ne frega. Fa l’attrice solo perché gliel’ho chiesto io, non gliene importa niente se si vedono le rughe e quando le dico che una cosa fa schifo la prova in un altro modo. Ha quell’atteggiamento nonchalant e conviviale che si racconta avesse Marcello Mastroianni».
Nel film racconta la sua difficoltà nel diventare madre, compresa quella disperazione che porta a tentarle tutte, anche ad andarsi a sedere su una sedia «benedetta» che renderebbe feconde. Ha sempre desiderato essere madre o è stato un bisogno tardivo?
«No, ho sempre voluto avere figli. Quando mi sono resa conto che la cosa sarebbe stata più difficile di quanto pensavo, ho capito che non riuscirci, per me, sarebbe stata una tragedia».
E, alla fine, ha scelto di adottare, nel 2009, una bambina senegalese, Céline.
«Vede, la sedia è servita».
Non proprio, lei non è rimasta incinta.
«Ma che differenza fa? Adesso ho una bambina e questo è ciò che conta».
Lei però ora è single.
«Ma non sono una madre single. Mia figlia ha un papà (Louis Garrel, ndr), lo vede, è comunque un punto di riferimento, siamo una famiglia, che lui viva nella stessa casa o no. Comunque non escludo di adottare ancora, anche da single. In Francia questo è possibile, contrariamente all’Italia. Sa, penso sempre a Dalila Di Lazzaro che tentò di adottare da single tanti anni fa e ancora quella legge così stupida non è cambiata».
Non le fa paura l’idea di crescere un figlio senza una figura paterna?
«No, perché sono circondata da amiche e conoscenti che l’hanno fatto. Non sono situazioni malsane né più problematiche di altre».
Lei ha abbandonato un’intervista a Cannes per via di una domanda sulla sua vita privata. Si arrabbia di più se le chiedono di Louis Garrel o se le chiedono di sua sorella Carla?
«Non mi arrabbio per l’argomento della domanda, ma per la quantità di voyeurismo che ci leggo dietro».
Fa parte della categoria delle celebrità che si lamentano dell’invasione della stampa nella loro vita privata?
«No, io sono sconosciuta e libera. E adesso va tutto bene. Certo, per cinque anni, l’attenzione dei giornali era così morbosamente concentrata sulla vita di mia sorella che qualunque cosa io facessi, il mio lavoro passava in secondo piano o diventava una scusa per parlare di lei. Ricordo che venni in Italia per uno spettacolo di Patrice Chéreau, mi fecero un’intervista e il titolo era “La sorella di Carla Bruni fa teatro”. Niente di grave, un po’ di irritazione che passa in cinque minuti».
Anni fa, ai tempi del suo primo disco, chiesi a sua sorella come mai non avesse fatto l’attrice, come altre ex modelle. Rispose: «C’è già Valeria, è tanto brava e più disciplinata di me».
«Carla è disciplinatissima, altroché (ride, ndr). Piuttosto fare l’attrice è una professione in cui si decide poco, ci si deve affidare in mani altrui e credo che questo le darebbe fastidio. Io, invece, adoro recitare. Gli attori sono come bebè che cercano di farsi amare».
Da quando è madre è più felice?
«La parola felicità mi fa paura. Preferisco allegria, è più facile. E io sono molto più allegra di prima, grazie alla presenza della bambina nella mia vita, questo sì».
La sera stessa dell’intervista è arrivata la notizia della morte del regista Patrice Chéreau, con cui Valeria Bruni Tedeschi ha studiato e poi lavorato spessissimo. Anche durante il nostro incontro in mattinata, l’aveva citato più volte. Le ho scritto per chiederle un ricordo. Questo è il testo della sua mail: «Era mio padre nel lavoro. Era sempre molto importante per me quello che avrebbe pensato di ciò che stavo facendo. Ho paura del lavoro senza di lui. Ho paura della vita senza di lui. Senza il suo pensiero. Senza la sua intelligenza. Mi sembra di essere in una barca in cui non c’è più il capitano».