Michele Neri, Vanity Fair 16/10/2013, 16 ottobre 2013
SI SALVI CHI VUOLE
Non sto tanto bene. O meglio, mi sento bene soltanto se posso controllare di continuo posta e messaggi, leggere subito le notifiche di Facebook, Twitter e Google Plus, e alla mattina, grazie a WhatsApp, sapere a che ora si è collegata per l’ultima volta mia figlia nella notte. Qualche sera fa, dopo una giornata davanti al pc, finalmente a letto, non mi addormentavo: c’era un rumore di fondo, parole che accendevo sul soffitto. Stavo già rispondendo a messaggi che avrei ricevuto, forse, l’indomani.
Il digitale mi ha intossicato. Siamo numerosi. Secondo un sondaggio del magazine Time in otto Paesi, il 68 per cento dorme con lo smartphone sul comodino, il 40 lo usa mentre gioca con i figli, il 66 preferirebbe restare al lavoro senza pranzo piuttosto che senza cellulare.
Ma adesso è il momento della frenata digitale, di chi cerca un’ora, un’isola, una stanza unplugged. Nei ristoranti di Manhattan si gioca alla «pila di telefonini»: i commensali, appena seduti, piazzano lo smartphone sul tavolo. Il primo a impugnarlo paga.
Tra le tendenze del turismo mondiale, predomina la ricerca di hotel privi di Internet.
Mi metto alla ricerca, in Rete, di qualcuno che si sta già disintossicando. Aspetto. Niente. Mi chiedo perché nessuno risponda alle mie email. Poi penso: che detox sarebbe, se lo facessero?
La psicologa Nicole Adami, che tiene il corso Unplugged per l’associazione milanese Let’s Life! (il prossimo, il 10 dicembre), mi spiega che c’è un nome per la dipendenza leggera come la mia: «tolleranza». E che man mano che quest’ultima aumenta, diventa «attenzione ossessiva».
«Si resta connessi anche quando non se ne ha più bisogno. Pensi di stare su Facebook dieci minuti, passano due ore». Poi aggiunge che i corsi non hanno pretese terapeutiche, «si tengono prima delle vacanze per insegnare a staccarsi dal Web e riconoscere se si sta abusando e perché. Se per un bisogno di controllare che cosa fanno gli altri, o per l’ansia di far sapere che ci sei anche tu, che si traduce nell’aggiornare continuamente il proprio status».
Un consiglio? «Usare i contatori elettronici per conoscere il tempo passato in Rete».
La psicologa mi rassicura: «Stiamo tutti diventando molto “tolleranti”». L’importante è non arrivare agli altri due livelli dell’Iad (Internet addiction disorder): «astinenza» e «tossicodipendenza».
Controprova: entro nel forum di Nienteansia.it. La seconda risposta al mio «Cerco dipendenti digitali», è un secco: «Oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia una leggera dipendenza da Internet».
È una conseguenza del progresso. Perché smettere, se stare connessi rende felici? Paul Miller, giornalista americano di The Verge, dopo un anno di digiuno, ha ammesso: «L’ho fatto per cercare il vero Paul. Ma la mia vita è legata in modo inestricabile a Internet. Senza, non era vita vera».
PIÙ LIBRI, MENO TWITTER
Il blogger e pubblicitario Enrico Sola ha abbandonato Facebook e Twitter per un mese. «Cambiavo città e lavoro. Sono passato da 300 tweet al giorno a zero».
Reazioni?
«Gli amici pensavano che stessi male. Mi chiedevano: ma ti hanno mollato?».
Benefici?
«Ho recuperato i vecchi libri, alcuni scoperti grazie a Twitter e mai letti perché ero troppo preso a twittare».
Qual è il giusto rapporto con i «social»?
«Bisognerebbe trattarli come le sigarette al lavoro: esci, fumi, ritorni».
Consigli per cominciare?
«Togliere Facebook e Twitter dal cellulare».
Sono connesso, quindi sono. Se è questa la nostra condizione, come capire quando è una malattia?
Negli Stati Uniti la dipendenza digitale è riconosciuta ufficialmente, ogni mese nascono centri per curarla. In Cina, Corea del Sud e India stanno peggio di noi (lo sostiene Time). In Italia, a leggere un sondaggio dell’Aifos, un’associazione che si occupa di sicurezza sul lavoro, i sintomi da overdose riguarderebbero l’ottanta per cento degli impiegati al computer.
BERE PER DIMENTICARE
Il primo ambulatorio italiano dedicato alle dipendenze da Internet sta per compiere due anni. Si trova al Policlinico di Roma, lo dirige il dottor Federico Tonioni. Che dice: «C’è una grande differenza tra adulti e giovani. I primi frequentano ambienti del Web dove la relazione con gli altri è priva di significato. Chat erotiche, cyber-sex, siti di azzardo online. Internet non fa che potenziare all’infinito la loro dipendenza. Mentre per gli adulti, il problema è la quantità di ore passate in Rete, per gli adolescenti è la qualità del loro ritiro sociale. A far male non è stare troppo su Internet, ma il fatto che investano le loro emozioni in relazioni mediate dal Web, dove il corpo è escluso. Da me vengono ragazzi molto intelligenti, ma incapaci di guardarti in faccia. Per loro non ha senso fare una diagnosi di dipendenza, perché sono ancora in evoluzione».
Nell’ambulatorio di Tonioni sembra ci sia la fila. Ma lì uno come me sarebbe respinto, come i tanti appena un po’ troppo «tolleranti» che si rivolgono a lui.
Il californiano Felix Levi, invece, non fa questa distinzione. Dopo essersi disintossicato da una overdose da video grazie a un lentissimo viaggio in Asia, ha creato il brand Digital Detox. Organizza camp e retreats bucolici nei boschi della California. «Sono appena tornato dal quindicesimo ritiro: c’erano persone di diversi Stati americani. In comune, troppa connessione email e social network. Arrivano perché nella loro vita qualcosa non funziona, non mangiano bene, sono confusi. Un’impiegata di una società di software mi ha detto che ormai, per lei, il tempo si era bloccato, a fine giornata si sentiva svuotata. Dopo pochi giorni nella natura senza cellulari e orologi, ripartono come dopo un mese di vacanza».
Levi ha avuto idee semplici. «Ho organizzato i primi Device Free Drinks (bevute con divieto di connettersi) nei bar californiani. «Pensavo sarebbero venuti in venti, ne sono arrivati 750».
Nei camp si sguazza nel fango, si gioca con il Lego, si suonano i bonghi. Bello, ma non ho l’età. E quindi?
Non ho il coraggio dei McMillan, la famiglia canadese che per un anno vivrà come se fosse il 1986.
Non ho neanche la determinazione del giornalista americano Tom Handerson, che, spaventato dall’invasione della privacy da parte di Google, da un anno non lo usa più, e neanche YouTube e Gmail.
Mi resta l’app Digital Detox, che blocca lo smartphone da mezz’ora a un mese. Ma è solo per Android. Sull’homepage del sito c’è scritto: «Adesso che non controllate più ossessivamente la Twittersfera, potete cominciare una rivoluzione».
Troppo. Mi accontento di lasciare il cellulare in bagno, quando vado a letto.