Diego Gabutti, ItaliaOggi 24/10/2013, 24 ottobre 2013
È UN PECCATO CHE CI FOSSE CRAXI
Poteva essere il racconto senza retorica della prima repubblica. Un racconto, cioè, senza nostalgia e senza le consuete ubbie ideologiche o giudiziarie. Invece, è soltanto quel che ne dice il soffietto di copertina (oltre che il titolo un po’ smielato e il nome, un tempo molto chiacchierato, dell’autore): l’autobiografia di Claudio Martelli, che fu ai tempi il «delfino di Bettino Craxi» (Ricordati di vivere, Bompiani 2013, pp. 593, 19,50 euro, ebook 9,99 euro).
Per carità, non è necessario essere Lawrence d’Arabia o Senofonte in fuga dai cacciatori di scalpi del re persiano per scrivere la propria autobiografia, ma essere qualcuno certamente aiuta.
Claudio Martelli, con tutto il rispetto, non è mai stato nemmeno il numero uno del Partito socialista, ma solo il vice di Bettino Craxi, col quale però non andava sempre d’accordo, come racconta (e un po’ anche si vanta) in questo suo memoir similsettecentesco, tra la politique d’abord e le ragioni del cuore. Essere il vice del Cinghialone non è poco, naturalmente (la maggior parte dei politici, nella vita, ha combinato molto meno di così). Ma è un po’ come essere il cognato d’Albert Einstein, il compagno di banco di Fídel Castro o il cugino di Darwin (cito il titolo, molto bello, d’un saggio uscito di recente). Ciò che interessa, di Martelli, non sono le sue vicende personali (la giovinezza, gli amori, le letture, la filosofia, i viaggi, quanto sarebbe stato bravo come filosofo, o che discorsi alti era in grado di tenere con chi era capace d’apprezzarli) ma la sua avventura politica: vent’anni di guerra corsara, a fianco del leader d’un piccolo partito riformista, contro il Pci e la Democrazia cristiana, due Leviatani che, alla fine, annientando anche se stessi e la propria ragion d’essere, avranno ragione di Bettino e dei suoi guerriglieri, delfini e tutto.
È la storia che spiega l’Italia com’è oggi. Viviamo tra le rovine della guerra dichiarata dai socialisti contro il compromesso storico. Una guerra dove qualcuno è stato magari più sgominato degli altri (l’intero partito socialista da Craxi in giù, salvo i pochi postcraxiani di terza o quarta fila passati nei ranghi del partito di plastica) ma in cui non ci sono stati vincitori. A meno di considerare tali le derive della Dc, della magistratura, del partito comunista confluite, a poco a poco, nella palude dell’antiberlusconismo, dove comandano gazzettieri e pm d’assalto, mentre i politici masticano amaro. Posso sbagliare, forse la letteratura oblige e anche Claudio Martelli ha diritto a un po’ d’intimismo e anche a un po’ di narcisismo, ha diritto persino alla sua «confessione esistenziale», come si dice in langue de bigné, ma è dell’Italia presente che l’ex vice di Craxi, facendosi da parte, avrebbe forse dovuto scrivere il prequel.
Non mancano, naturalmente, anche le informazioni puntuali e i dati di fatto, che qua e là aprono spiragli oggettivi sui fatti della repubblica, oltre che della vita. Una citazione, su Licio Gelli, che Martelli incontrò un paio di volte nel tentativo di convincerlo a far cambiare la linea editoriale del Corriere, all’epoca filocomunista e andreottiano (un’altra volta, butta lì, lo vede uscire dall’Hotel Raphael, dimora romana di Bettino). «Vedrà, vedrà_», diceva Gelli, e «di lì a poco ne avrebbe viste lui delle belle, e ne avrebbe fatte vedere a tanti scappando dalla sua azienda di materassi con undici valigie di documenti e lasciando a Castiglion Fibocchi la dodicesima, bella e pronta per la guardia di finanza inviata dalla procura di Milano. Pronta con liste vere, apocrife, rivedute e corrette, censurate, integrate dalle domande d’iscrizione alla P2, con biglietti e bigliettini scritti a mano, scritti a macchina, gli appunti su questo e su quello, le tracce e le piste per incastrare, ricattare o proteggere_ a futura memoria».
Un’altra citazione, sulla tangente Eni degli anni Settanta: «Vera o falsa — noi eravamo certi che fosse vera — trapelò una notizia, una voce dapprima sussurrata che presto si trasformò in un venticello insistente e infine tuonò come rombo di cannone. La voce diceva che, su una gigantesca fornitura di petrolio saudita all’Eni, personaggi misteriosi avessero lucrato una colossale mediazione di centoventi miliardi destinata a operazioni di potere in Italia. Quali operazioni? L’acquisto del Messaggero da parte del gruppo Caracciolo, una più ampia e micidiale spartizione del controllo sulla stampa italiana, compreso il Corriere della Sera, ma anche finanziamenti alle correnti di Giulio Andreotti e di Claudio Signorile».
Ma, per lo più, Claudio Martelli parla di se stesso: «Da un po’ avevo ripreso a pensare al tema del dolore, rileggendo Epicuro, Milton, Goethe, ma anche studi e analisi, come quelli di Foucault e Laing, dedicati al mondo dell’emarginazione e alle istituzioni costrittive, carceri e manicomi. Mi ero messo a leggere anche di storia della medicina, da Ippocrate a Pasteur al Dottor Semmelweis di Céline, cercando, nella madre di tutte le scienze, un bilanciamento all’eterno imperversare delle metafisiche». Bene. Ne abbiamo piacere. Ma il libro, senza offesa, diventa più interessante quando Martelli, invece che di se stesso, parla di qualcun altro, come per esempio nelle belle pagine che dedica a Giovanni Falcone, o in quelle che non fanno sconti al più ampolloso, nonché il più bigotto e il più calcolatore, dei presidenti della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.
Talvolta elogia, in bella retorica, giusto un po’ enfatica, il povero Craxi: «Un solido, lungimirante socialdemocratico europeo? Un pragmatico, prudente, moderato, calcolatore, ma anche un anticonformista, un ribelle sempre e comunque? Un figlio della più pura tradizione riformista? Un vendicatore delle sconfitte e dei torti inflitti ai socialisti da fascisti e comunisti? Un lupo di mare, un orco, un incantatore di serpenti?» Talvolta ne parla per prendere le distanze: «Avevo progettato e tentato un’autoriforma del partito, e Craxi l’aveva bloccata. Avevo voluto i referendum, quello sulla giustizia e quello sul nucleare, e Craxi si era mostrato indifferente o contrario, alterando poi gli esiti d’entrambi. Avevo spinto per l’alleanza con radicali e socialdemocratici per creare una federazione laico-socialista, e Craxi l’aveva smontata. Pensavo che la stagione della nostra alleanza con la Dc fosse ormai al tramonto, mentre Craxi pensava che sarebbe durata ancora, forse a lungo. Io non sottovalutavo il suo realismo, non ignoravo affatto le sue ragioni, ma non ero più convinto». Altre volte ne interpreta i timori segreti e spiega che, negli ultimi anni, «il profilo del delfino», agli occhi di Craxi, «comincia a confondersi con l’ombra del rivale».
Parla di Craxi, esalta Adriano Sofri, racconta l’epopea di Raul Gardini, gli altri leader socialisti (Gianni De Michelis, Ottaviano Del Turco, Massimo Pini, Tizio, Caio) li cita appena, ma soprattutto Claudio Martelli posa da personaggio di Stendhal. In copertina, una foto di se stesso trentenne, e poi le donne, i salotti, i baci rubati, «cercai il suo sguardo», «mi fai paura», gl’incontri, le separazioni, i meriti propri, i torti altrui. Un romanzetto. Non si pretendeva tanto. Bastava meno.