Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 24/10/2013, 24 ottobre 2013
COSÌ I LIGRESTI HANNO SPOLPATO FONSAI
Due manoscritti aprono e chiudono gli ultimi dieci, importanti, anni del legame tra Salvatore Ligresti e Mediobanca. Documenti entrambi storici, nonostante le forti differenze nella loro natura e nel significato. Il primo risale al 30 maggio 2002 ed è una lettera privata dell’allora amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi, a Salvatore Ligresti, cui un anno prima aveva fatto acquistare la Fondiaria per mettere al riparo le quote in Generali e nella stessa Mediobanca dalle mire di Fiat ed Edf, che avevano assaltato la controllante Montedison. Non era stato un capolavoro di rispetto del mercato; Maranghi, nella sua prosa elegante, lo riconosceva.
«Carissimo ingegnere Ligresti, oggi è stata portata a compimento — speriamo senza ulteriori intoppi — una operazione che da alla Sua famiglia una prospettiva imprenditoriale di straordinaria rilevanza. Anche in questa circostanza, Mediobanca è stata al Vostro fianco. L’obiettivo è stato raggiunto pagando, almeno per il dottor Pagliaro (Renato, attuale presidente dell’istituto, ndr) e per chi Le scrive, un prezzo assai elevato in termini di immagine e di rapporti personali». È la parte inedita della lettera, che qui riproduciamo integralmente, in cui il numero uno di Mediobanca invitava l’ingegnere dì Paternò, già a capo della Sai, a «un cambio di passo» nella conduzione del secondo gruppo assicurativo, che non poteva più avere «un taglio famigliare». «La gestione di questo patrimonio, ove non fosse allineata ai migliori standard della professione, finirebbe per innescare una crisi di fiducia nella clientela, con conseguenze gravissime per Fondiaria-Sai».
Dieci anni dopo, il secondo documento. E il foglio, carta a quadretti, scritto fronte e retro da Jonella Ligresti, la figlia maggiore dell’ingegnere: l’ormai famoso «papello» con le richieste per nenti della famiglia (Giulia, Paolo, Jonella e Salvatore, indicati con le iniziali di nome e cognome) per accettare l’offerta di Unipol di rilevare il gruppo Premafin-Fonsai in gravissima crisi finanziaria. Il foglietto, datato 17 maggio 2012, è firmato da Salvatore Ligresti e siglato dal numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, «soltanto per presa visione», come ha spiegato il banchiere. Per Mediobanca non si tratta di un patto ma di un semplice elenco di richieste, irricevibili e non impegnative — consulenze, come quella per Giulia in Compagnie Monégasque (gruppo Mediobanca), uso di case, uffici, autisti, vacanze gratis negli hotel del gruppo — che Nagel ha accettato di sigiare dietro pressione di Ligresti, al solo fine di far progredire la difficile operazione, che necessitava del sì della famiglia. Sulla lettera è in corso a Milano un’inchiesta a carico di Nagel per ostacolo alla vigilanza, per l’ipotesi di un patto occulto con Ligresti. Ma dai verbali dell’inchiesta parallela di Torino sul falso in bilancio di Fonsai e dalle dichiarazioni ai pm di Nagel e dell’amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, emerge quale fosse l’interesse di Mediobanca e delle banche creditrici: salvare non i Ligresti ma la compagnia e, attraverso di essa, i crediti.
Parte da lontano Nagel, nell’interrogatorio del 16 aprile a Torino come persona informata sui fatti. Quel credito da 1,1 miliardi verso Fonsai, ha spiegato il banchiere, «si è andato strutturando nel corso dell’ultimo decennio». Nel 2001 la galassia Fondiana-Sai-Premafin era già esposta per circa 930 milioni, compresi 400 milioni di prestito subordinato concesso a Sai per scalare Fondiaria. L’ultima erogazione da parte di Mediobanca è del 2008, per 350 milioni. Ma allora non c’erano segni di cedimento: «Fino a tutto il 2007 l’intero gruppo mostrava buoni risultati tecnici e buona redditività».
Nel 2008, dopo il crollo di Lehman Brothers e l’inizio della crisi mondiale, Mediobanca cominciò a mutare linea verso i Ligresti, proprio per la particolare natura dei finanziamenti concessi (prestiti subordinati, più esposti all’insolvenza del creditore). I segnali di difficoltà arrivavano dagli stessi Ligresti: nel 2010 Fonsai tentò di cedere alcune attività minori come le compagnie Liguria assicurazioni, Sasa e la serba Ddor ma nessuna delle operazioni andò in porto, per differenze sui prezzi con i potenziali compratori, individuati da Mediobanca. Fu allora che si deteriorarono i rapporti tra Piazzetta Cuccia e Ligresti, anche perché in parallelo l’ingegnere cercò un’alleanza con i francesi di Groupama: «Un tentativo poi non andato in porto», ha spiegato Nagel, «per più circostanze, per quanto mi risulto, non ultima — oltre alla configurazione giuridica dell’operazione — una costante ritrosia di Ligresti a vedere diluita la propria partecipazione nel gruppo».
In questo scenario pochi mesi dopo, nel 2011, maturò l’aumento di capitale da 450 milioni orchestrato da Unicredit, pesantemente esposta verso Premafin, controllante di Fonsai. È la ricapitalizzazione ora sotto la lente degli inquirenti di Torino, secondo i pm Vittorio Nessi e Marco Gianoglio e il nucleo tributario della Guardia di Finanza l’aumento di capitale sarebbe stato sottostimato a causa del buco nascosto nelle riserve sinistri per circa 538 milioni.
Al pm che gli chiede se Unicredit sia intervenuta in accordo con Mediobanca, Nagel risponde: «Non si è trattato di un’operazione che abbiamo appreso dai giornali. Proteggeva la nostra esposizione. È per queste ragioni che l’intervento di Unicredit è stato visto da noi positivamente, anche per quanto riguarda l’intervento sulla governance: era da circa il 2002 che non vi erano nella società posizioni importanti e non correlate con la famiglia». Era stata Unicredit a porre come condizione per mettere mano al portafoglio il cambio nella governance e nel management: tre membri del consiglio vennero indicati dalla banca; circa il rinnovo del top management, ha spiegato Ghizzoni, «non era una condizione scritta ma si trattava di un accordo che venne raggiunto a margine della trattativa». La sostituzione dell’amministratore delegato di Fonsai Fausto Marchionni con Emanuele Erbetta, manager interno al gruppo, «non era considerata scelta sufficiente». I Ligresti avevano anche valutato, e poi accantonato, l’ipotesi di nominare un esterno come Giovanni Battista Mazzucchelli, numero uno di Cattolica Assicurazioni. «A questo proposito», è il ricordo di Ghizzoni, «furono proprio i Ligresti ad individuare Piergiorgio Peluso», responsabile del corporale banking di Unicredit e prima in Capitalia e in quanto tale già conosciuto dall’ingegnere, che nel corso degli anni aveva scelto l’istituto romano come banca di riferimento anche grazie al legame con Cesare Geronzi.
L’arrivo di Peluso alla direzione generale interruppe la serie di manager interni come Fausto Marchionni, Antonio Talarico o Emanuele Erbetta. Per la procura, anche troppo vicini alla famiglia, tanto da aver avallato operazioni finanziarie a danno della compagnia e a vantaggio solo dei Ligresti: insomma esattamente ciò che Maranghi, nella sua lettera, aveva temuto. E dire che tentativi di introdurre manager esterni c’erano stati. Nel 2002 era arrivato alla guida di Premafin Enrico Bondi, reduce dalla Montedison. Ma «rimase per poco tempo, pochi mesi», chiosa Nagel. Bondi non ha mai raccontato i retroscena dell’avventura nel gruppo ma è noto che per restare avesse imposto a Salvatore la condizione che i figli restassero fuori dall’azienda. Fu invece Jonella a ottenere dal padre l’uscita di scena del manager. E solo pochi mesi rimase nel gruppo anche Roberto Gavazzi, già amministratore delegato di Fondiaria, manager «rigoroso come Bondi», sottolinea Nagel. A guidare per dieci anni la compagnia sarà invece una figura interna come Marchionni, già direttore generale di Sai. Marchionni, Talarico ed Erbetta sono gli ex manager arrestati dalla procura di Torino per concorso in falso in bilancio aggravato insieme con la famiglia Ligresti (tranne Paolo, che si trova in Svizzera).
E’ con Peluso — secondo le testimonianze di Nagel e Ghizzoni e il racconto ai pm del manager — che si cominciò a intravedere l’enormità del buco. Già subito dopo l’aumento di capitale dell’estate 2011 il quadro appariva drammatico, e con la terza trimestrale risultò chiaro che il patrimonio era sotto i limiti regolamentari. Così a dicembre, racconta Nagel, «si decise di incontrare il presidente di Fonsai, Jonella Ligresti, e l’amministratore delegato Erbetta, ai quali veniva annunciata una lettera che avrebbe inviato Mediobanca e con la quale si invitava Fondiaria ad iniziative volte ad una ricapitalizzazione che, anche sulla base di quanto rilevato da Standard & Poor’s, veniva quantificata in circa 600 milioni». Nonostante un «iniziale tergiversare sulla proposta» la situazione era davvero compromessa, e le pressioni per un nuovo aumento arrivavano da manager, creditori, Isvap — l’autorità di vigilanza sulle assicurazioni — e dagli stessi advisor dei Ligresti, Goldman Sachs e Banca Leonardo. Tanto che alla fine la cifra fu fissata dalla stessa Fonsai in 750 milioni.
In realtà Mediobanca e Unicredit — hanno messo a verbale Nagel e Ghizzoni — avevano ormai chiaro che fosse inevitabile un cambio di proprietà in Fonsai, con l’ingresso di un altro gruppo assicurativo: ma i contatti di Piazzetta Cuccia con soggetti stranieri, come Allianz, Axa, Zurich e Munich Re, non ebbero successo. Il gruppo non piaceva per vari problemi: una forte esposizione al mercato italiano e la presenza nell’azionariato della famiglia Ligresti. È al quel punto che si fece avanti Unipol.
Neanche Ligresti stava però con le mani in mano: al contrario, aveva avviato trattative con la holding veneta Palladio Finanziaria e con il fondo Clessidra. Fu Ligresti, tra il 26 e il 27 dicembre 2011, ad avvisare Nagel che stava per firmare una lettera di intenti con Roberto Meneguzzo, numero uno di Palladio. «Ligresti tuttavia non era convinto dell’ipotesi Palladio», racconta Nagel. «Il 28 dicembre gli dissi che, per quanto mi poteva risultare, un’alternativa perseguibile era quella dell’intervento di Unipol…». Così quella stessa sera venne organizzata in Mediobanca una cena per far conoscere l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri, alla famiglia Ligresti. Da lì partì la trattativa, che inizialmente prevedeva l’acquisto diretto del 30% di Premafin da parte di Unipol per 45 milioni. Tuttavia quello schema venne stoppato dalla Consob. L’authority si oppose anche alle clausole a tavore della famiglia, come la manleva legale e le buonuscite. Ma per il buon esito dell’operazione non si poteva prescindere dai Ligresti. Da qui l’ultimo colpo di reni dell’ingegnere. E la difesa dei decennali privilegi della famiglia, rivendicati minuziosamente nel «papello».