Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 24/10/2013, 24 ottobre 2013
LASCIATE SPAZIO A CHI SA FARE
È come un pesce che sta morendo perché l’acqua in cui vive si sta lentamente, ma inesorabilmente scaldando. Così Ernesto Galli della Loggia (Corriere, 20 ottobre) ma anche in parte Piero Ostellino (Corriere, ieri) descrivono l’Italia. I responsabili della lenta agonia sarebbero una classe politica inadeguata (in primis, aggiungiamo noi, il leader degli ultimi 20 anni, Silvio Berlusconi), e quegli imprenditori che sopravvivono solo perché sussidiati dallo Stato, cioè dai contribuenti. Ma anche gli italiani avrebbero le loro colpe: si starebbero adagiando a chiacchierare con i loro innumerevoli telefonini, a guardare la tv, senza leggere neppure un libro all’anno.
È una descrizione dell’Italia molto deprimente, ma che purtroppo in qualche modo coglie nel segno.
Altri dati, però, raccontano un Paese diverso. Quello più significativo è l’attivo della nostra bilancia commerciale, cioè il fatto che il valore delle nostre esportazioni supera quello delle importazioni. E non è solo per via della recessione che frena l’import. Le nostre esportazioni crescono: hanno raggiunto i 195 miliardi nel primo semestre di quest’anno, dieci in più dell’anno scorso. Manteniamo le nostre quote di mercato. Ci sono imprese, oltre la solita Luxottica, e in campi diversi, come Prysmian, Brevini, Mossi & Ghisolfi, che si sono adattate all’euro e hanno grande successo sui mercati internazionali.
Imprese che ce la fanno, nonostante siano tartassate da imposte elevatissime. E non è, come scrivevamo il 6 ottobre, una divisione tra Nord e Sud. La differenza corre tra due tipi di Paese, tra aziende produttive e imprese decotte: ce ne sono di entrambi i tipi sia al Nord che al Sud. Rispetto al pri- mo semestre dello scorso anno le esportazioni sono cresciute dell’11,3% in Puglia e del 10,7 in Toscana, mentre il Nordest è fermo.
Ma ad essere positivi ci sono anche altri elementi.
Alcuni dei nostri licei fanno invidia a quelli del Nord Europa ed alle migliori high school inglesi e americane.
Nei programmi di dottorato dei più prestigiosi atenei al mondo gli studenti italiani sono sempre tra i più bravi.
Vi sono decine di giovani professori italiani con cattedre nelle prime università americane, medici negli ospedali più ambiti. Basterebbe solo un po’ di flessibilità e di meritocrazia per farli rientrare.
Ma anche in Italia vi sono eccellenze universitarie.
Un esempio, e non è l’unico, è l’Istituto italiano di tecnologia che sta facendosi un nome nel campo della ricerca scientifica e ha attratto a Genova scienziati italiani ma anche americani. C’è eccellenza anche nel settore pubblico: lo staff di economisti della Banca d’Italia è considerato uno dei migliori in assoluto fra tutte le banche centrali, compresa la Federal Reserve americana. I funzionari che al ministero dell’Economia gestiscono il nostro debito pubblico sono rispettati dagli investitori di tutto il mondo.
Un Paese in cui tutti sono mediocri, quello sì sarebbe senza speranza. Ma non è il caso dell’Italia. Per ricominciare a crescere basterebbe trasferire risorse ed energie dal Paese che non funziona a quello che cammina e spesso corre. Dobbiamo abbandonare il mito del «piccolo è bello», delle imprese familiari. Servono aziende che magari nascono piccole ma poi riescono a crescere, a competere nel mondo e a quotarsi in Borsa per non vivere di prestiti bancari elargiti con il contagocce.
Nessuno vuole chiamarla così, ma comunque lo si veda, il terzetto delle imposte appena nate — la Trise (Tributo sui servizi), la Tari (Tassa sui rifiuti) e la Tasi (Tassa sui servizi indivisibili) — rappresenta una forma molto ambigua di patrimoniale mascherata. Con buona pace dei rigoristi del vocabolario fiscale.
Le prove tecniche erano arrivate con la Tares, la tassa con la vita più breve nella lunga stagione delle imposte (appena un anno): ci sono 30 centesimi aggiuntivi per metro quadrato che a dicembre andranno versati. E che cosa è, se non una patrimoniale, un’imposta che si misura sulle dimensioni di un appartamento? Certo i professori di Scienza delle Finanze non saranno completamente d’accordo in punto di dottrina, ma già l’Imu rappresenta una forma di prelievo patrimoniale. Perché si paga in base al valore degli immobili e li tassa anche se non danno nessun reddito.
A pensarci bene, con il terzetto Trise-Tari-Tasi viene introdotta la patrimoniale comunale, visto che saranno i sindaci a fissare il livello dell’imposta. Certo la tassa rifiuti serve per coprire i costi della raccolta. Ma la Tasi? Non sembra esserci in questo caso un collegamento diretto tra prelievo e servizi erogati. Ricordiamo che servirà a pagare dagli stipendi della Polizia municipale all’illuminazione cittadina, all’arredo urbano. Non è, quindi, una vera e propria tassa.
Anche intorno al risparmio si sta esercitando la nuova strategia del Fisco per aumentare le entrate.
Così l’aliquota per l’imposta sul bollo che colpisce gli investimenti finanziari — dai Bot ai Btp, dai fondi alle azioni, dai depositi vincolati alle obbligazioni bancarie — è gradualmente salita fino a raggiungere il 2 per mille.
Un’attenzione fiscale, quella riservata al risparmio, che non sempre lo tutela, come prevede la Costituzione. E, guarda caso, l’unica patrimoniale a viso aperto mai pagata dagli italiani fu il prelievo straordinario del 6 per mille su tutti i conti correnti introdotto dal governo Amato nel 1992. Una patrimoniale senza metafore che consentì all’Italia di evitare la deriva, ma che è stata oggetto di un duro confronto arrivato fino alla Corte costituzionale. Finora è l’unica imposta chiamata con il suo vero nome di patrimoniale. E, strano ma vero, proprio in quell’anno
fu inventata l’Isi, l’Imposta straordinaria sugli immobili. Poi sostituita dall’Ici che a sua volta ha lasciato il posto all’Imu, l’imposta municipale sugli immobili
Secondo alcuni storici, come il professor Massimo Baldini, lo Stato italiano ai suoi albori aveva, addirittura, come imposta più importante una patrimoniale, quella che una volta si chiamava imposta fondiaria.
L’ex ministro Giulio Tremonti, citando il Corso di Scienza delle Finanze di Luigi Einaudi nel 2009 sottolineò come l’imposta fondiaria rientrasse nelle «Imposte italiane sui redditi».
Non una patrimoniale dunque, ma un’eccezione. Che negli ultimi anni si sta ripetendo troppo spesso.