Sergio Romano, Corriere della Sera 24/10/2013, 24 ottobre 2013
DISAVVENTURE DI UNO STORICO IN UN TRIBUNALE FRANCESE
Se passasse la legge sul negazionismo non le pare che la giustizia italiana dovrebbe spiccare immediatamente ordine di cattura internazionale a carico del premier turco Erdogan per la posizione sul genocidio armeno?
Maurizio Tancredi
Caro Tancredi,
Non credo che Erdogan correrebbe rischi in Italia o altrove. Sarebbe protetto dall’immunità a cui ha diritto e, spero, dal buonsenso dei suoi ospiti. Potrebbe, tutt’al più, essere considerato «persona non grata», come accadde a Kurt Waldheim in occasione di un progettato viaggio negli Stati Uniti dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica austriaca nel 1986. Era accusato di avere fatto parte del corpo d’occupazione tedesco in Grecia e Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale e di essere stato quanto meno al corrente delle atrocità commesse dal reparto in cui aveva prestato servizio. Ma anche questa prospettiva mi sembra, nel caso del premier turco, del tutto improbabile.
Se lei vuole sapere, tuttavia, come potrebbe svolgersi il processo contro una persona accusata di negazionismo, posso raccontarle ciò che accadde nel novembre 1993 quando Bernard Lewis, storico anglo-americano della Università di Princeton e grande conoscitore del mondo arabo-ottomano, dette una intervista sul genocidio armeno al quotidiano francese Le Monde . Alla domanda «Perché i turchi rifiutano sempre di riconoscere il genocidio degli armeni?», Lewis rispose: «Lei intende dire la versione armena di questa storia». E dopo avere lasciato comprendere con queste parole che «genocidio», in quel caso, era una espressione impropria, evocò il contesto storico in cui i fatti erano accaduti. La Turchia era da qualche mese in guerra contro l’Impero zarista e nel campo russo combatteva un corpo di volontari armeni, reclutati al di là del confine, che si proponeva d’incitare alla rivolta i connazionali delle province armene dell’Impero ottomano. Sarebbero state queste, secondo Lewis, le ragioni per cui il governo turco decise il trasferimento in massa degli armeni verso le province arabe. L’esodo fu organizzato con metodi brutali e fu altissimo il numero di coloro che vennero massacrati lungo la strada o morirono di fame e di freddo. Ma la parola «genocidio» presuppone una intenzione che in quelle circostanze, a giudizio di Lewis, fu assente. Lo dimostra, secondo lo storico, il fatto che niente del genere accadde alle comunità armene delle due maggiori città dell’Impero (Costantinopoli e Smirne).
L’intervista provocò alcune azioni giudiziarie e, in particolare, un processo promosso dal Foro delle associazioni armene di Francia a cui si unì più tardi la Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo. Non esisteva ancora la legge che punisce espressamente la negazione del genocidio armeno (verrà approvata nel 2001), ma gli accusatori si appellarono alla legge Gayssot del 1990 che concerne espressamente il genocidio ebraico e, più generalmente, i crimini contro l’umanità nella definizione data dal Tribunale di Norimberga dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
La sentenza, alla fine del processo, fu un prodigio di acrobazie giuridiche. I giudici francesi dichiararono di non avere alcun titolo per stabilire se i massacri perpetrati dal 1915 al 1917 fossero «genocidio», ed esclusero che Bernard Lewis fosse mosso da intenzioni malevole. Ma sostennero che aveva commesso una colpa professionale: quella di non avere citato nell’intervista e in un articolo successivo l’esistenza di altre teorie e punti di vista. Questa «carenza d’informazione» avrebbe provocato pene e dolori che Lewis doveva indennizzare con il versamento di un franco simbolico. Non è tutto. Nella sentenza Lewis fu definito difensore, anziché imputato, ma gli fu ordinato di pubblicare la sentenza su Le Monde e di pagare le spese giudiziarie. I magistrati ebbero l’accortezza non trattare Lewis alla stregua di un criminale, ma sentenze come queste non incoraggiano il dibattito storico.