Franca Morelli, Focus 22/10/2013, 22 ottobre 2013
IL MISTERO DELLE DONNE SCIENZIATE
In vitro, la differenza non esiste. Ovvero, esaminati bambine e bambini, studenti e studentesse, i risultati dicono sempre la stessa cosa: non è vero che il cervello femminile ha meno attitudine a matematica, fisica, ingegneria o a qualsiasi altra disciplina scientifica vi venga in mente. E allora perché la fredda legge dei numeri gela le aspirazioni di chi nasce femmina? Perché in America il 60 percento dei laureati è donna, ma donna è solo il 20 per cento degli informatici, il 20 dei fisici, il 18 degli ingegneri?
In Europa le cose non cambiano: secondo gli ultimi dati (Eurostat 2012), i finlandesi si piazzano al primo posto per numero di laureati in discipline tecnicoscientifiche mentre l’Italia è al ventesimo posto nella classifica Ue (peggio di noi fanno Estonia, Lettonia, Paesi Bassi, Ungheria, Malta, Cipro, Lussemburgo). E se chiedete a un quindicenne italiano se nel suo futuro vede una carriera in campo scientifico, il 21,4 per cento dei maschi risponderà di sì contro solo il 4,9 per cento delle ragazze.
ECCELLENZE. Non che gli esempi eccellenti manchino. Persino da noi, dove la battaglia per la scienza prima che di genere è economica. A settembre il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha nominato la più giovane senatrice a vita di sempre (e la terza donna nella storia dopo Camilla Ravera, politica del Pci, e il premio Nobel Rita Levi-Montalcini): Elena Cattaneo, 51 anni, laurea in Farmacia, ha perfezionato al Mit di Boston i suoi studi sulle cellule staminali e su una malattia neurologica ereditaria, la corea di Huntington, e dirige il laboratorio per la ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano.
Fabiola Gianotti, 51 anni, fisica, ha coordinato il progetto del Cern che a Ginevra ha annunciato la scoperta del bosone di Higgs, la cosiddetta particella di Dio: nel 2012, la rivista Time l’ha scelta tra le persone più importanti dell’anno. Ilaria Capua, 47 anni, virologa, inserita nei 50 scienziati più importanti del mondo dalla rivista Scientific American, ha svolto ricerche fondamentali sull’influenza aviaria, ma soprattutto ha scosso la comunità scientifica per la sua decisione di rendere pubblici e condivisibili i risultati dei suoi studi.
La rivista Nature ha stilato la classifica dei dieci scienziati che più hanno inciso nel 2012: ci sono Cynthia Rosenzweig, climatologa per la Nasa, Elizabeth Iorns, genetista australiana di 33 anni, che ha iniziato il progetto “Reproducibility Initiative” perché i risultati delle ricerche siano confermati da altri scienziati.
PROVE. Jo Handelsman, microbiologa all’Università di Yale, ha dimostrato con un esperimento quanto conti la discriminazione di genere: a 127 professori di materie scientifiche è stato inviato un curriculum per il posto di direttore di un laboratorio. Il curriculum era identico, i nomi di chi lo presentava erano per metà maschili e per metà femminili. I curriculum dei maschi hanno ottenuto una votazione di 4 su 5, quelli delle donne di 3,2. E la proposta economica era in media di 4 mila dollari l’anno in più per gli uomini rispetto alle donne. Forse un primo indizio per spiegare quello che il New York Times in un recente articolo ha definito “il mistero della scomparsa delle donne nel mondo della scienza”.
Nel 2005 ci aveva provato Larry Summers, ministro del Tesoro di Clinton e poi collaboratore economico di Obama, allora presidente di Harvard. Le donne nella scienza sono poche, disse, perché nascono con meno attitudine rispetto ai maschi. Apriti cielo. Summers dovette fare pubblica ammenda: era solo una provocazione per sollevare il problema della scarsa presenza femminile in questo settore. Ma il tentativo di dimostrare che al cervello delle donne manca il “pallino” della matematica è un fiume carsico che attraversa i decenni.
Un’équipe dell’Università di Irvine, California, arrivò alla conclusione che il cervello degli uomini ha più materia grigia (che elabora le informazioni) mentre quello delle donne ha più materia bianca (che mette in relazione le informazioni ricevute). Questo spiegherebbe perché l’uomo sia più capace di concentrarsi su un singolo problema (ed ecco i migliori risultati in matematica), mentre la donna avrebbe una “visione” più ampia (ed ecco le migliori performance nel campo del linguaggio). Ma – ed è la stessa ricerca a puntualizzarlo – ciò non vuol dire che un genere sia più intelligente di un altro. Significa solo che arriverà allo stesso risultato con percorsi diversi.
Cesare Cornoldi, docente di Psicologia all’Università di Padova, autore di numerosi saggi (l’ultimo è Le difficoltà di apprendimento a scuola. Far fatica a leggere, a scrivere, a capire la matematica, Il Mulino, 2013) spiega: «Non escluderei che alcune piccole differenze biologiche possano avere una qualche influenza. Per esempio, lo psicologo e psichiatra inglese Simon Baron-Cohen, nella sua caratterizzazione del cervello maschile, include la specificazione di minore empatia e maggiore propensione al ragionamento logico-matematico. Ma maggiore propensione non significa necessariamente maggiore capacità. Abbiamo avuto la fortuna di poter confrontare migliaia di bambini e bambine italiani, in occasione della standardizzazione delle nostre prove AC-MT di apprendimento della matematica. I risultati ottenuti mostrano che non ci sono chiare differenze di genere: talvolta sono di poco superiori i maschi, talvolta sono di poco superiori le femmine».
COLPA DI BARBIE. Ma allora chi è l’indiziato numero uno di questo giallo che inizia 50 anni fa con un articolo di Science che fece epoca? Era il 1965 e la rivista titolava: “Women in science: why so few?” (Donne nella scienza, perché così poche?). Una risposta oggi forse c’è: il colpevole è lo stereotipo. Quello di cui le donne sono vittime, ma anche quello che introiettano senza saperlo, se è vero che, nel 1992, la prima versione di Barbie parlante diceva tra l’altro: “math class is tough” (la lezione di matematica è difficile).
Nel 2011, la ricerca di due scienziati dell’Università del Wisconsin, Jane Mertz e Jonathan Kane, ha messo in relazione i dati raccolti in 86 Paesi sulle capacità matematiche di maschi e femmine. Il risultato è che in almeno metà dei Paesi non esistono differenze, mentre, dove le differenze di genere ci sono, il passare del tempo mostra un notevole assottigliarsi del divario. Così se nel 1970, in America, tra i ragazzi con capacità matematiche superiori (misurate da appositi test) il rapporto tra maschi e femmine era di 13 a 1, ora è di 3 a 1. Una percentuale che poi però non si rispecchia nelle carriere.
A livello europeo i ricercatori donna sono solo il 30 per cento, i professori di fascia alta il 18 per cento e le donne presidente di istituti scientifici il 13 percento. Lo studio “Why so few? Women in Science, Technology, Engineering, and Mathematics”, guidato da Catherine Hill dell’American Association of University Women, cita esperimenti assai significativi. In uno sono stati sottoposti gli stessi test a due gruppi di studenti di college. Al primo era stato ricordato che i ragazzi sono più portati delle ragazze nelle discipline scientifiche, al secondo no. Risultato: nel primo gruppo il punteggio medio era di 25 per i maschi e 5 per le femmine, nel secondo c’era sostanziale pareggio (19 per i ragazzi, 17 per le ragazze).
MATTEO E MATILDA. L’anno scorso lo studio “Meta-analysis of gender and science research”, pubblicato dalla Comunità europea, ha cercato di spiegare perché in quella che viene definita “l’ora di punta” della carriera (dai 25 ai 35 anni) così tante donne si perdono per strada. Il solito dilemma carriera-famiglia non è una spiegazione sufficiente. Ancora una volta, la ricerca punta il dito contro una questione culturale: più nelle società la parità tra uomo e donna è reale, più il cervello della donna è meno chiuso alla scienza. E scatta meno, in chi decide i fondi da assegnare, le cattedre da attribuire, i progetti da finanziare, il cosiddetto “effetto Matilda”. La definizione è stata creata negli anni ’90 dalla storica della scienza Margaret W. Rossiter per descrivere il lavoro misconosciuto di molte ricercatrici e contrapposto all’“effetto Matthew”, la fama usurpata di molti scienziati, credibili in quanto uomini.
QUOTE ROSA? A rompere il soffitto di cristallo ci provano in molti. Anche con le “quote rosa”. A Torino e Roma, le università propongono borse di studio per donne ingegnere, Microsoft ha creato da quest’anno il progetto Nuvola Rosa destinato a sensibilizzare l’opinione pubblica e le ragazze sul divario di genere nel mondo scientifico. E dal 1998 L’Oréal, in collaborazione con l’Unesco, realizza il programma For Women in Science: entro la fine del 2013 saranno 1.729 le scienziate di 100 Paesi a essere state aiutate con premi e borse di studio. Perché il mondo della scienza non può più evitare uno snodo fondamentale: l’inclusione delle donne porta ricchezza.
Spiega Cornoldi: «In molti ambiti di ricerca è necessario lavorare in ampi gruppi composti da scienziati con diverse preparazioni e sensibilità. Anche quando la ricerca viene svolta individualmente o in piccoli gruppi, si possono comunque riscontrare delle scelte di temi e metodi che sono legate a specificità di genere. Per esempio, nella ricerca scientifica psicologica, abbiamo molte più ricercatrici che si interessano di argomenti legati allo sviluppo e all’educazione, mentre i maschi sono più numerosi in altri settori, come la psicologia del lavoro e la psicometria». Come dire che, ad esempio, una urbanista che prima di arrivare in studio ha combattuto nel traffico per portare i bambini a scuola, magari penserà la città del futuro in una maniera diversa...