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 2013  ottobre 22 Martedì calendario

COME FINANZIARE I PARTITI POLITICI


[Archivio La Stampa: Martedì 22 Ottobre 1963]

E’ sul tappeto il problema del finanziamento dei partiti sul bilancio statale. Problema che sarebbe bene tutti gl’italiani seguissero, perché tocca veramente un punto vitale della nostra struttura politica.
Non c’è alcuno così candido da pensare, vedendo quel ch’è l’apparato dei grandi partiti, le loro sedi, la fitta gerarchia di funzionari, la stampa, le operazioni di propaganda, le campagne elettorali, che tutto si saldi con le quote d’iscrizione. Di qualche partito si sa che si fa versare dai propri deputati parte cospicua della indennità parlamentare, che lo stesso pratica con chiunque abbia cariche elettive retribuite; e probabilmente i redattori dei suoi giornali riversano come oblazione parte di quanto percepiscono in virtù del contratto giornalistico; ma sono goccie d’acqua nel mare.
Come vengono finanziati i partiti? Da noi ed altrove appare abbastanza naturale che un partito sia sorretto dalle organizzazioni economiche di cui difende gli interessi: federazioni padronali o sindacati operai od altri gruppi qualificati di interessi.
E’ una dolorosa alterazione della vita democratica, che sarebbe apparsa inconcepibile agli uomini del Risorgimento o del post-Risorgimento, quale fosse il loro colore politico, e che toglie ai partiti, in definitiva ai parlamentari, la necessaria indipendenza; si può avvisare alla difesa dei lavoratori e dissentire da certi desideri delle loro organizzazioni, da certe tattiche da questi volute.
Ma il male peggiore non sta qui. Inutile nasconderselo: si sente continuamente dire che non c’è grande o piccola concessione, appalto a trattativa privata, operazione quale si sia, nell’ambito statale o regionale o comunale, senza la tangente per il partito che nell’uno o nell’altro ambito ha il potere; peggio, si sente anche parlare di finanziamenti fatti a determinate correnti di un partito per sostenerle contro altre correnti. Si mormora pure che Enti pubblici o privati, ma con capitali di Stato, spendano parte non indifferente delle loro entrate per finanziamento di partiti: si fa persino risalire a questo il deficit di qualche grossa istituzione economica.
E’ probabile che ci sia dell’esagerazione, che molte mormorazioni non abbiano base nella realtà; tuttavia resta che il bilancio dei partiti dev’essere imponente, e che in qualche modo ha ad essere coperto.
Ed il male, anche se ridotto rispetto ai « si dice », è gravissimo: implica o da parte degli enti pubblici o da parte dei concessionari la necessità di bilanci falsi; implica che non si presceglie il migliore, chi offre allo Stato od al Comune condizioni più vantaggiose, ma chi darà di più al partito. Implica una rete di menzogne, di reticenze, di sospetti: il danaro versato andrà davvero tutto al partito? Non resterà qualcosa nelle mani dell’intermediario? Implica, ciò che per me è ancora più grave, una ulteriore lesione al costume: il principio di dire sempre la verità, quello che nella casa pulita non c’è angolo in cui sia vietato guardare, l’ideale della casa dalle pareti di vetro, è mandato definitivamente in soffitta.
Questo bisogna ricordare per rendersi conto della proposta. E comprendo la caldeggi un uomo come Scelba, cui anche gli avversari debbono riconoscere aver sempre avuto il senso dello Stato, del rispetto che questo deve meritare.
Le obiezioni peraltro si presentano a prima vista. Come si distribuirà il sussidio statale ? Proporzionalmente alla forza dei partiti, contrassegnata dalla loro rappresentanza in Parlamento? Ma non è questo un applicare il beati possidentes, rendere sempre più forte chi è già forte, porre in condizione di schiacciante inferiorità il partito nuovo che volesse affermarsi? Non è altresì un incentivo ai partiti perché cerchino con ogni mezzo, anche ahimè con offerte economiche, di attrarre a sé i parlamentari più modesti, più esitanti, sui margini del loro gruppo?
Non si crea un pericolo per la stessa libertà, con la tentazione che si crea ai partiti più forti di porre fuori legge quelli estremi per aver maggior parte nella distribuzione del contributo statale?
Si distribuirà invece il sussidio proporzionalmente al numero degli iscritti a ciascun partito? E chi controllerà le iscrizioni fasulle o prezzolate? E non si urta la suscettibilità di chi ha una forte fede politica col dirgli che una parte di ciò ch’egli paga in imposte, dirette od indirette, va anche al partito che più avversa?
Altra obiezione ancora: può ravvisarsi nei metodi di ripartizione pensabili una certa giustizia distributiva rispetto ai cittadini iscritti a partiti; ma come si giustifica il contributo rispetto a chi non appartiene ad alcun partito, si dichiara anzi ribelle alla disciplina di partito?
E mentre è in atto una polemica antipartitica (che non ci vuol molto per comprendere essere sostanzialmente antidemocratica, non voler riconoscere formazioni spontanee), introdurre il finanziamento dei partiti, non è dare nuova ragione di avversione a chi non vuol saperne di partiti e nutre sempre la nostalgia del collegio uninominale ?
Tutte eccellenti ragioni; se pure ad alcuna di esse si possa rispondere che è fatale il cittadino sappia che egli contribuisce anche per scopi antitetici alle sue visuali, e l’uomo d’oggi non ha le ripugnanze dei suoi bisnonni, cui appariva ad esempio insopportabile che il non credente contribuisse per la Chiesa.
Eccellenti ragioni, che però sormonterei, tanto mi pare grave il male che si vuol combattere, se sapessi che col finanziamento statale dei partiti questi non cercheranno più altre fonti (tolto le insignificanti contribuzioni degl’iscritti).
Ma chi si sente di dare questa malleveria?
Qual è l’ente, l’accademia, il teatro che dica che col sussidio governativo soddisfa a tutte le necessità e non ha bisogno d’altro? I partiti rappresenterebbero questa rara avis?
Sarebbe probabilmente continua la richiesta di aumento del finanziamento governativo; ma davvero non avverrebbe più che il ministro, il sindaco restassero sordi a chi dicesse che conchiudendo quella tale operazione finanziaria ci sarebbe quel certo numero di milioni per il partito?
Sanzioni? E quali? Già oggi il codice penale è chiaro nel senso che commette reato di corruzione il pubblico ufficiale che per compiere un atto del suo ufficio riceve danaro per sé o « per un terzo »; ma come si potrebbe, anche se fosse dato provarlo, colpire qualcosa che è entrato nel costume non solo nostro, ma di altri paesi?
Dovremmo mettere altre sanzioni? Quali? Dichiarare sciolto il partito e decaduti i suoi parlamentari, se si provasse che il partito continua a ricevere contributi da enti pubblici o da chi è in rapporto d’affari con lo Stato ? Ma chi mai si sognerebbe di proporre una norma, che non sarebbe mai applicata contro chi ha il potere e diverrebbe facilmente persecutoria contro i partiti che dessero fastidio?
Chi vuole il finanziamento dei partiti parte dalla constatazione di un gravissimo male, di qualcosa che rischia d’insudiciare, e forse già insudicia, tutta la vita pubblica; ma è più che ragionevole temere che il rimedio non sia affatto idoneo a togliere il male. Che questo continui, anche eliminato lo stato di bisogno.
E neppure si scorgono altri rimedi; durante il primo ministero Segni fu varata, proponente il ministro Tambroni, la legge 4 aprile 1956, diretta a contenere le forme di propaganda elettorale e così le relative spese; ottima legge, che andrebbe rigorosamente applicata; ma le spese elettorali dirette, quelle della settimana delle elezioni, sono solo un capitolo del bilancio dei partiti.
Nessuno vede il modo di ridurre questo bilancio; passata l’era della povertà accettata con gioia; dei giovani entusiasti che davano gratuitamente le loro serate, dei segretari di Camere del lavoro retribuiti ad ottanta lire il mese, che conobbi nella mia infanzia. E neppure quelli basterebbero; cosa costa riempire l’Italia di un solo manifesto?
La civiltà del benessere ha le sue tare; occorre sianci sempre forze morali a contrastarle, se non si vuole che divengano crepe tali da rendere pericolante tutto l’edificio.
A. C. Jemolo