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 2013  ottobre 23 Mercoledì calendario

“ADDIO RIFORME, LA MONARCHIA DI GIORGIO PUÒ FINIRE”


L’ultimo lavoro di Franco Cordero s’intitola Morbo italico: il diagnosta – professore emerito di Procedura penale alla Sapienza e commentatore di Repubblica – non sembra ottimista. “Il berlusconismo”, nota sulla soglia dell’intervista, “è organicamente entrato nel corpo italiano”.
Testuale dal libro: “L’anno scorso Neapolitanus Rex era inviolabile nei colloqui riservati: adesso nemmeno i parlamentari possono nominarlo, salvo che cantino laudi; sotto Giacomo II Stuart non esistevano censure così ferree. Quali siano i suoi poteri e come li eserciti, è questione politica, liberamente discutibile. Ha una falsa idea del Parlamento chi pretende banchi muti o plaudenti”.
Vediamo l’etimologia: “Parlamento” significa luogo in cui rappresentanti del paese discutono de re publica in spirito laico; non vigono interdetti. L’augusta persona è attore nel teatro politico: rieletto (primo nella storia italiana), occupa larghi spazi interloquendo spesso; naturale che se ne parli, e il taglio critico riesce più serio dell’ossequio cortigianesco. Salta al-l’occhio la singolarità d’una rielezione combinata da 101 franchi tiratori intriganti notturni. Spira aria monarchica, nel senso d’un re che governa. Nei sette anni del primo mandato non emette sillaba sullo spaventoso conflitto d’interessi nel quale il pirata governava pro domo sua: anzi, coopera ai famigerati lodi d’immunità, vistosamente invalidi; tiene in piedi i resti d’un regime fallimentare; predica e impone l’ibrido berlusconoide (“meno male che Giorgio c’è”, cantava l’interessato).
E le riforme costituzionali?
Le saluta l’Olonese, al cui triplo stomaco non basta mai la misura del potere: è taumaturgo ma aveva le mani legate; appena gliele sciolgano, saranno mirabilia. Presiede l’officina un suddito d’Arcore, ministro ad hoc, e non era tiepido nel culto del Caimano.
Riforme capitali sotto un governo che nessuno immaginava, in un Parlamento eletto con una legge incostituzionale.
Cominciano mettendo disinvoltamente le mani nell’art. 138, dov’è stabilito in qual modo siano operabili revisioni costituzionali. Dicono di seguire la procedura corretta.
Affiora un limite definibile “sordità logica”. La questione è se l’art. 138 sia emendabile. Supponiamo che, seguendo quell’iter, le Camere lo riscrivano: nella nuova formula basti una maggioranza qualunque; o non siano più necessari i due voti con l’intervallo d’almeno tre mesi; o cada il requisito del referendum. Il prodotto sarebbe invalido. Finché duri l’attuale ordinamento, la Carta è modificabile solo nel modo stabilito dai costituenti: norme diversamente formate non appartengono al sistema 1° gennaio 1948; spetta alla Corte liquidarle. Se poi la discontinuità prende piede, perché il coup de main risulta effettivo, s’instaura un nuovo ordinamento: non è detto che le rivoluzioni espugnino Bastiglie o Palazzi d’Inverno; talvolta avvengono senza rumore, sornione. In ultima analisi, le regole dipendono dal fatto che i chiamati ad applicarle ubbidiscano o no.
Che funzione ha l’articolo 138?
Quale meccanismo genetico, sta sopra le norme passibili d’una revisione. Anche in sede giuridica vigono i livelli identificati da Bertrand Russell (teoria delle classi) e confondendoli alleviamo paradossi. Epimenide ne scova uno 26 o 27 secoli fa: “tutti i cretesi mentono”, enunciato universale affermativo (l’opposto è che almeno uno dei predetti sia credibile, almeno una volta); è vero o falso quando l’affermi un cretese? Vero, se falso, falso perché vero: frasi simili non hanno senso; l’acquistano appena dalla classe “cretesi” togliamo l’enunciante. Sul piano pratico, il paradosso del cretese bugiardo sviluppa disordini. Inteso nel senso debole (e sarebbe gesto eversivo), l’art. 138 diventa grimaldello micidiale. L’Olonese arrembante aspirava al potere assoluto: in quali forme, lo indicano tanti episodi, incluse serate d’Arcore, né muta natura in vista degli ottant’anni; e nel governo presieduto dal Pd Letta junior, nipote del plenipotenziario Pdl, manovra l’alambicco costituente, cavandone capolavori, un devoto berlusconiano della specie ornitologica “quaglia-colomba”. Navighiamo sul Narrenschiff, allegra nave dei folli, ricorrente nella pittura quattro-cinquecentesca.
La Corte d’assise di Palermo ha accolto la richiesta del pubblico ministero d’ascoltare il Capo dello Stato nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Se ne discuteva l’anno scorso ed era prevedibile che in qualche modo riemergesse l’asserita inviolabilità del Totem, qualunque sia il contesto. In materia esiste una sentenza suicida della Consulta, dissecata nel Morbo italico. Eventi simili sprigionano dei riflessi: s’allinea subito ad regem la loquace Guardasigilli; scattano i quirinalisti; niente esclude un secondo sciagurato conflitto, sebbene il tema siano cose dette dal-l’allora consigliere su fatti remoti, estranee alle funzioni del Presidente. Dunque, nihil obstat e speriamo che stavolta nessuno opponga l’inesistente prerogativa.
I piani d’amnistia e indulto contemplano B.?
No, esclamano fonti virtuose, e guai a chi lo pensa; ma nei circuiti dell’eufemismo regna Monsieur Tartuffe: gli applausi dicono come i forzaitalioti intendano l’idea d’una clementia principis.
Ancora da Morbo italico: “Giochi notturni hanno riportato Napolitano sul Colle dopo sette anni, pesanti nella bilancia politica; e nessuno s’aspetta un autocritico passo abdicativo: rimane lassù fino all’anno 2020, in età da patriarca, ma prima d’allora sarà bancarotta, se non interviene qualche santo”. E poi: “Se vogliamo che qualcosa cambi in meglio e organicamente, questo governo deve andarsene. Impossibile finché dal Quirinale vegli GN”.
Tutti a casa?
L’ideale sarebbe un salto retrogrado ad aprile, quando Montecitorio votava in seduta comune, e mantenere la parola data a Romano Prodi, ma la freccia del tempo non vola indietro. Resta nel possibile che il rieletto d’allora attui la minaccia d’andarsene, offeso dalle mancate riforme (quas Deus avertat, se è permesso lo scongiuro latino).