Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 23/10/2013, 23 ottobre 2013
LA BANCA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ DEBOLE
Era un’attesa ingenua quella delle elezioni tedesche, superate le quali Berlino avrebbe avuto un atteggiamento molto più costruttivo nei confronti dell’integrazione europea. La piattaforma europea di una grande coalizione Cdu-Spd ha il suo centro di gravità nel rifiuto di finanziare i salvataggi delle banche degli altri Paesi. La Spd infatti ha ottenuto i migliori successi elettorali quando ha cavalcato la critica alle banche. La Cdu quando ha negato aiuti ai governi stranieri. La somma di queste posizioni ostacola l’uso di fondi europei per la ricapitalizzazione delle banche. Accentua le responsabilità di ogni Paese per se stesso. Rischia cioè di rendere fragile l’unione bancaria e remota l’unione fiscale. Questo è il quadro in cui il Consiglio Ue discuterà di due passaggi fondamentali per l’integrazione futura: i nuovi vincoli alla politica economica e appunto l’unione bancaria. La complessità di questi temi è tale da offuscarne l’importanza davvero straordinaria. Bisogna però distinguere i dettagli dalla sostanza politica che come sempre, fin dall’inizio di questa crisi, continua a essere l’equilibrio impossibile tra "interdipendenza" economica degli Stati e la loro volontà di "indipendenza" fiscale (evitare che gli elettori di un governo paghino per i cittadini di un altro Paese). Un mese fa su queste colonne abbiamo descritto la strategia degli "accordi contrattuali" con cui la cancelliera Merkel vuole vincolare le riforme strutturali dei Paesi dell’area euro. A Bruxelles i governi dovranno accordarsi su "indicatori" di riforma. Da dicembre gli indicatori potrebbero diventare vincolanti, a fronte di un piccolo fondo di solidarietà che faciliti le riforme. La motivazione politica è di offrire una sponda europea ai governi di fronte alla ovvia difficoltà di fare riforme strutturali nelle arene democratiche nazionali. Tuttavia i "contratti" riguarderanno scelte che sono al cuore delle ideologie politiche che animano le nostre democrazie: un certo grado di diseguaglianza è indispensabile, o la crescita invece richiede quanta più equità possibile? Lo sviluppo nasce dal lento progredire della conoscenza umana, dal consolidamento del tessuto sociale, o dal dinamismo del capitalismo finanziario? Evitare di discutere pubblicamente su questi argomenti finirà per ritorcersi sul consenso per l’Europa. Carlo Bastasin
Anche nelle trattative sull’unione bancaria l’obiettivo è di ridurre al minimo le conseguenze fiscali dei problemi altrui. Anche in questo caso tutto è noto da mesi. Per ultima, all’inizio di agosto, la Commissione ha pubblicato un articolato sulle procedure di risoluzione delle banche da cui appare chiaro che tutti i creditori bancari contribuiranno alla ristrutturazione del capitale delle banche in difficoltà (bail-in) in misura tale che l’intervento degli Stati sia residuale. Vi sono dei margini da chiarire nel testo della Commissione, ma il tema da accertare è che i creditori non subordinati delle banche siano coinvolti in modo ragionevole, o quantomeno lo siano allo stesso modo in tutti i paesi. Il sospetto invece è che nei paesi deboli si colpiranno i creditori, mentre le Landesbanken continueranno a essere salvate dalle solide finanze pubbliche tedesche. A quel punto la frammentazione del mercato del credito aumenterebbe anziché rientrare, aggravando la recessione nella periferia. I progressi sull’unione bancaria non vanno sottovalutati. La Bce controllerà le 130 maggiori banche europee a cui fanno capo non solo l’85% dei crediti, ma anche quasi tutti i crediti internazionali. Tuttavia la supervisione non è credibile se non è sostenuta da risorse che poi rendano possibile la risoluzione delle banche. Ci sono tre modi di affrontare il problema delle risoluzioni bancarie: istituire fondi nazionali a costo di rendere più precaria la posizione fiscale del paese e facendo ripartire la crisi; il modello spagnolo che ha visto l’Esm finanziare le banche attraverso il governo di Madrid dopo uno speciale programma di assistenza; o la ricapitalizzazione diretta delle banche da parte dell’Esm. È chiaro che in questo momento l’intervento diretto attraverso l’Esm non ha le condizioni né giuridiche né politiche. A Berlino si dice che entro il 2015-16 l’Esm potrà intervenire, una volta che la supervisione della Bce sarà operativa, dopo cioè che i bilanci bancari saranno stati valutati e ripuliti dai guasti del passato, con interventi finanziati su base nazionale. Da parte sua la Bce ha chiesto una valutazione dei bilanci bancari rigorosa prima di assumere l’onere della supervisione, ma ha anche ribadito più volte che il processo è credibile solo se esistono “fondi appropriati” per la ricapitalizzazione di istituti troppo fragili. Già a giugno la Bce aveva denunciato i rischi derivanti dall’assenza di “fondi appropriati”, dall’eccesso di discrezionalità delle autorità nazionali, e dai danni che l’imposizione di criteri di bail-in troppo severi avrebbe prodotto sulla fiducia dei creditori bancari negli istituti non insolventi. Se azionisti e obbligazionisti vedono il loro investimento diventare ancora più rischioso a causa del bail-in, il capitale bancario diminuirà, e in misura maggiore diminuirà anche il credito delle banche all’economia, soprattutto nei paesi più deboli. Le posizioni ideologiche sull’unione bancaria che segnano il dibattito politico dovrebbero prendere atto di queste complessità. Ma in Germania è improbabile che succeda prima della fine di novembre, quando l’accordo di coalizione a Berlino sarà stato firmato. Non resterà molto tempo. Solo sette mesi dopo incombono le elezioni per il Parlamento europeo.