Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 23 Mercoledì calendario

TORNA IN SALA IL GATTOPARDO, CON 12 MINUTI MAI VISTI

C’era una volta un Gattopardo in camicia rossa. E non solo in senso garibaldino. Nella prima versione del suo film, Luchino Visconti aveva inserito alcune scene del tutto estranee al capolavoro di Tomasi di Lampedusa ma molto conformi alla sua salda fede marxista. Deciso a dare una sterzata di «sinistra» a quello che era considerato un romanzo di «destra», in alcune scene inserì conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina utili a smorzare quel mondo cinico e aristocratico di un libro già cassato da intellettuali del Pci come Vittorini, Trombadori, Licata. E così, a fine marzo ’63, il film uscì in un’edizione fortemente connotata politicamente.
Ma solo due mesi dopo, Festival di Cannes in vista, ecco che Visconti ci ripensa. Prende le forbici e taglia via proprio quelle scene «pericolose». Quando arriva sulla Croisette Il Gattopardo è smagrito di 12 minuti, dai 197 iniziali a 185. Nessuno se ne accorge. I critici stranieri perché è la prima volta che lo vedono, quelli italiani perché non vogliono piantare la grana con il rischio di nuocere al film. Che difatti vince la Palma d’oro e conquista il mondo nella versione raccorciata.
Adesso, 50 anni dopo, Il Gattopardo torna a vivere. Da lunedì la Cineteca di Bologna, progetto «Il cinema ritrovato», lo riporta in 70 sale nel restauro del laboratorio «L’immagine ritrovata» realizzato con Martin Scorsese. E a corredo del film c’è un documentario I due Gattopardi di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, dove si mostrano le scene tagliate e mai più reinserite. Tra cui quella dove Paolo Stoppa, alias don Calogero, tenta di placare dei contadini in odor di rivolta, promettendo loro le terre, ma dopo il plebiscito. In una seconda sequenza, sempre Don Calogero avverte Tancredi di prossimi tafferugli minacciando di far intervenire l’esercito.
«All’Istituto Gramsci abbiamo trovato diverse versioni della sceneggiatura – spiegano Anile e Giannice –. Le prime di forte connotazione sociale, ispirate a una novella di Verga sulla strage dei braccianti a Bronte, poi via via smussate sul fronte politico. Mentre girava, Visconti si avvicinava sempre più allo spirito originario del romanzo. Forse perché anche lui faceva parte del mondo del principe di Salina, forse perché realizzava che quei suoi interventi sarebbero risultati un corpo estraneo. E a costo di dispiacere ai compagni di un partito a cui peraltro non si era mai iscritto, decise di eliminarli. Infine, quel film kolossal costato alla Titanus un patrimonio, “doveva” vincere a Cannes. E quindi risultare inattaccabile da ogni punto di vista».