Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 23 Mercoledì calendario

VASSALLI CONTRO KAPPLER: «COSÌ INGANNAI LE SS»


È il 3 aprile 1944, lunedì santo. Sono passati dieci giorni dall’attentato di via Rasella e nove dall’eccidio delle Fosse Ardeatine. Roma è sotto choc e i nazisti ancora in preda all’«estasi assassina» che ha guidato la loro rappresaglia. Un giovane, ma già autorevole, capo partigiano socialista ha appuntamento con Libero De Angelis, staffetta della Brigata Matteotti. Sono entrambi in clandestinità e, quando s’incontrano in via del Pozzetto, De Angelis appare in uno stato «di grande stanchezza e avvilimento»: ha «la schiena appoggiata a una palizzata, un impermeabile gettato sopra le spalle» e muove alcuni passi verso l’amico «con aria indifferente», quasi che non lo vedesse. Poi, incrociandolo, gli bisbiglia: «Addio, siamo cascati tutti! Sono ammanettato!» Subito molti tedeschi in borghese, usciti da vari portoni, saltano addosso al dirigente del Cln e, caricatolo in una macchina con il compagno dopo un durissimo pestaggio che lo rende cieco per un paio di settimane, lo portano nel carcere delle SS.
Giuliano Vassalli vi resterà due mesi, torturato senza tregua da quello che per lui sarà per sempre «il boia» di via Tasso. Nessun nome. Perciò non si sa se alludesse al comandante della Gestapo nella capitale, il colonnello Herbert Kappler, che di sicuro fronteggiò, o a uno dei suoi due vice, il capitano Erich Priebke. Sarà liberato, anche per intercessione di papa Pio XII, a ventiquattr’ore dall’arrivo a Roma delle forze armate angloamericane, il 4 giugno 1944. Due mesi più tardi, il 3 agosto, scrive questa «memoria» sulla sua cattura e prigionia a uso dell’organizzazione militare del Psi e la affida a Giuseppe Berlingieri, che conduce un’inchiesta interna (e vi finiscono in 50) per valutare chi abbia saputo tenere duro e chi no, nelle mani dei tedeschi. Magari nella speranza di indicazioni che consentano di risalire alle identità di traditori e spie, spesso coperte da formule in codice.
Naturalmente Vassalli è personalmente al di sopra di ogni sospetto, per tenuta politica e coraggio. Del resto, poco prima, nel gennaio 1944, è stato proprio lui, assieme a Massimo Severo Giannini, a far evadere con falsi ordini di scarcerazione Giuseppe Saragat e Sandro Pertini da Regina Coeli, dov’era imminente la loro fucilazione (un blitz entrato nella leggenda e che gli sarebbe valso la medaglia d’argento). I partigiani socialisti, dunque, lo sondano confidando nella sua integrità e lucidità. Ha 28 anni e, figlio di un eminente giurista, è già a sua volta in cattedra come docente di Diritto penale e si assume le proprie responsabilità con salda autorevolezza, nella Resistenza. Doti che affiorano in questo documento secretato e rimasto sconosciuto fino a oggi: 14 cartelle battute a macchina e firmate, emerse a Firenze, durante il riordino delle ultime carte dell’archivio dell’Associazione nazionale Sandro Pertini, presieduta dallo storico Stefano Caretti.
Un racconto asciutto e fattuale, messo insieme con riluttanza («è solo con un grande sforzo di volontà che riesco a vergare qualche pagina su questa tragica vicenda»), antiretorico e senza autocompiacimenti, carico di sottigliezze, che ci porta dentro la scena di via Tasso. Colpisce, tra un capoverso e l’altro, il rincorrersi di personaggi importanti di quegli anni: da Pertini (con il quale era previsto un appuntamento lo stesso pomeriggio della cattura) a Crisafulli, Malfatti e Colorni, dal questore repubblichino Caruso a Bruno Buozzi (che Vassalli vide passargli davanti alla cella quando pochi giorni dopo lo portarono con altri 13 compagni a La Storta per l’esecuzione) a Nenni («considerato il capo socialista più pericoloso») e Saragat, senza trascurare il compagno di prigionia, il brigadiere dei carabinieri Angelo Ioppi, ridotto «in misere condizioni».
Degli aguzzini, un unico nome, quello dell’«istruttore Wesemann», incaricato di verbalizzare gli interrogatori, cui Vassalli rispondeva in tedesco. Non citati, forse per ribrezzo morale o perché comunque noti al Cln, Kappler e Priebke, che pure ebbero orgogliosamente parte nello spietato trattamento di chiunque fosse ostaggio della Gestapo a Roma. Mentre compaiono invece i riferimenti cifrati a certi delatori e spie, uno dei quali accusato di essere «un assassino».
«Quando mi scaraventarono nella cella numero due, riservata all’isolamento, pensai che era meglio uccidersi, perché ero sicuro di non uscirne vivo» raccontava Vassalli agli amici. Disperazione che allora superò scegliendo di fare l’avvocato di se stesso con straordinaria efficacia, anche se sotto l’enorme pressione della tortura continua. Diceva «cose che risultavano esatte ai nazisti», sapendo che già le conoscevano. Inventava nomi inesistenti, così da «non tradire nessuno». Depistava ogni pretesa di andare più a fondo su depositi d’armi, tipografie clandestine, luoghi di riunione e gerarchie, accreditando l’idea che l’organizzazione fosse rigidamente compartimentata e «segreta anche fra di noi». Anche sul movimento «Bandiera Rossa» e sui rapporti con il Partito comunista e con il Partito d’Azione, tace concedendo soltanto nomi di antifascisti che sapeva caduti alle Fosse Ardeatine. La sola cosa che ammette, ma anche questa le SS la sanno, è un dissidio politico, «una protesta» (presentata da Andreoni) davanti al Cln, sull’attentato di via Rasella, realizzato dai partigiani comunisti, che il Psi non avrebbe invece voluto.
Un’esperienza terribile, della quale Vassalli non parlava volentieri e che tuttavia non scalfì il suo profilo di democratico e difensore della libertà. Un anno più tardi, infatti, su incarico del governo militare alleato e con il consenso di quello italiano, riuscì a mettere fine all’attività dei «tribunali del popolo» e a far insediare organi deputati a giudicare gli imputati di collaborazionismo. Con la sua aria mite, spiegava: «Anche coloro che hanno violato i diritti umani devono poter avere un processo regolare».