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 2013  ottobre 22 Martedì calendario

BANCHE, SETTE COSE DA SAPERE

La lettera doveva rimanere segreta. Ma così non è stato. Il 20 luglio 2013 Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, ha scritto una missiva urgente al commissario Ue alla concorrenza, Joaquin Almùnia. Obiettivo: predisporre una strategia comune per far fronte a una nuova emergenza. All’orizzonte dell’Europa infatti, potrebbe compaire un’altra crisi finanziaria. Con al centro, ancora una volta, le banche, in particolare quelle italiane e spagnole. Ecco, punto per punto, cosa preoccupa Draghi, e quello che può succedere.

1. Gli stress test: i bilanci di 130 banche sotto esame, anche italiane
La preoccupazione del governatore centrale nasce da una ragione concreta. La Banca centrale europea (Bce) deve effettuare l’Asset quality review (Aqr) sulle più importanti banche europee. Si tratta di un esame (il cosidetto stress test) necessario a capire cosa si nasconde nei bilanci degli istituti di credito. Si dovrebbe scoprire così se sono abbastanza solidi o se hanno perdite nascoste: cioè se ci sono prestiti erogati destinati a non essere restituiti (i cosiddetti crediti deteriorati).
I test sono stati fissati sulle prime 130 banche (per patrimonializzazione) dell’Eurozona entro ottobre 2014: da Deutsche Bank a Bnp Paribas. In l’Italia l’esame coinvolge Unicredit, Intesa SanPaolo, Monte Paschi di Siena, Banco Popolare, Ubi Banca e il Credito valtellinese.

2. Secondo l’Fmi in Italia sofferenze stimate per 140 miliardi
Anche prima che gli stress test siano condotti, è già probabile ipotizzare che siano in difficoltà le banche dei Paesi maggiormente travolti dalla crisi economica: dove la recessione è stata più dura, gli istituti faticano a recuperare tutti i crediti erogati.
Secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi) Spagna e Italia potrebbero perdere nei prossimi due anni circa 280 miliardi di euro; la sola Italia ha crediti deteriorati per almeno 140 miliardi.
Il patrimonio di questi istituti, quindi, è destinato a diminuire sensibilmente. Tanto da mettere a rischio gli standard di Basilea III: un accordo internazionale che stabilisce le soglie minime di patrimonio che ogni banca deve rispettare per essere solida. Se gli standard non fossero rispettati, le banche dovrebbero iniettare subito denaro fresco nelle loro casse.

3. Il governo ha cercato di proteggere le banche con un’operazione contabile
Da agosto 2012 ad agosto 2013, imprese e famiglie italiane hanno ricevuto 52 miliardi in meno di prestiti: si tratta del cosidetto credit crunch, stretta del credito. Gli istituti hanno meno denaro, temono di perderlo e non lo imprestano.
Se gli stress test dell’Unione europea rivelassero l’esigenza di ricapitalizzare le banche, sarebbe un problema non da poco. Le banche chiuderebbero ulteriormente i rubinetti, travolgendo i mercati di sfiducia e lasciando i cittadini ancora più a secco.
Per evitare il peggio, il governo e i vertici dell’Associazione bancaria italiana (Abi) hanno deciso un’operazione ardita: rivalutare le quote di Bankitalia in mano agli istituti di credito (furono determinate ai tempi del Fascismo), quando le casse rurali (oggi divenute gruppi internazionali) avevano in portafoglio partecipazioni della banca di Stato.
Si tratta di un’operazione contabile, che aumenta però formalmente il patrimonio detenuto da ogni istituto di credito.

4. Le casse italiane non riescono ad ammortizzare le perdite
Non è detto però che l’operazione sia sufficiente.
L’Europa infatti non ha ancora trovato un accordo sulle normative fiscali che regolano le perdite delle banche.
L’Italia, per esempio, ha regole molto più rigide della Germania, che la penalizzano.
Nel sistema italiano, se un imprenditore non restituisce un prestito, vengono ’declassati’ a crediti deteriorati tutti i prestiti che ha ricevuto, da quella banca o da altre. In pratica, gli istituti non possono conteggiare nel proprio patrimonio denaro che invece magari potenzialmente possono recuperare.
Questo non succede invece in Germania. Le banche tedesche, inoltre, possono detrarre dal fisco rapidamente le perdite eventualmente subite: subito il 60% e il restante 40 entro 5 anni.
Insomma: se un cittadino non ripaga un mutuo o un altro prestito, in Germania la banca recupera velocemente quei soldi (quantomeno come detrazione dalle tasse). In Italia invece il credito deteriorato diventa una zavorra.
Se le banche italiane seguissero le stesse regole il beneficio sarebbe enorme: Il Sole 24 Ore ha calcolato che le perdite si ridurrebbero del 20-25%.
Invece gli istituti nostrani possono detrarre solo lo 0,3% delle perdite e lo sgravio fiscale viene spalmato in 18 anni. Le cose dovrebbero essere leggermente migliorate dalla Legge di stabilità presentata il 15 ottobre: si tagliano infatti i tempi per la detrazione e lo sgravio fiscale viene spalmato al 20% in 5 anni. Insomma, il passo avanti c’è stato. Ma l’Italia resta comunque penalizzata.

5. I piccoli risparmiatori rischiano di essere costretti a pagare per gli istituti di credito
A chi tocca pagare se le banche vanno in crisi?
Su questo punto gli Stati europei hanno dibattuto per anni interi. La Grecia per esempio è stata salvata col denaro pubblico. Una strategia che non è piaciuta agli elettori tedeschi, nonostante la Germania avesse ad Atene molti interessi: commerciali e bancari.
Dopo anni di dibattito, e dopo diversi esperimenti, a luglio 2013 i ministri economici dell’Unione europea si sono finalmente accordati su chi deve tirare fuori i soldi.
Prima di tutto devono farlo gli azionisti della banca, poi coloro che ne hanno comprato le obbligazioni. Possono essere fondi di investimento, assicurazioni e infine anche piccoli risparmiatori, anche se i depositi minori sono i più garantiti.
Con l’ipotesi di una nuova crisi delle banche, il rischio è dunque che gli azionisti decidano di non rinnovare l’acquisto dei titoli bancari, per non essere eventualmente costretti a intervenire nel loro salvataggio. Per dare idea del buco che potrebbe crearsi, in Italia solo nel 2014 scadono titoli per un valore di 2,7 e altri 4,6 nel 2016. A quel punto, si rischierebbe forse una fuga di capitali verso altri Paesi.

6. Il debito pubblico impedisce allo Stato di ricapitalizzare
Mario Draghi nella lettera che ha spedito all’Europa ha chiesto che ogni Stato trovasse un meccanismo per finanziare le proprie banche.
L’intervento pubblico nel capitale degli istituti di credito, attraverso il fondo appositamente costituito European stability mechanism (Esm), oggi è previsto solo nei casi di emergenza, quando esiste il rischio crac. Ma deve essere per forza affiancato da un intervento dello Stato a cui le banche appartengono. Anche perché nel fondo Esm al momento ci sono solo 60 miliardi.
L’alto debito pubblico italiano però renderebbe difficile l’iniezione di capitali freschi nelle banche da parte dello Stato. Per non dire poi che gli istituti di credito hanno in pancia moltissimi titoli di Stato italiani. Un corto circuito pericolso.
Per attenuare il legame tra Stato e banche, il governo ha varato un decreto collegato alla legge di Stabilità probabilmente per garantire i Credit default swap (Cds) stipulati dalle banche: cioè quei contratti derivati con cui gli istituti di credito si assicurano contro il rischio di fallimento dello Stato italiano. Il paradosso è che l’Italia garantirebbe i Cds sul suo default.

7. Il sistema tenuto in vita con i soldi per le piccole imprese
L’associazione bancaria italiana (Abi) e Unicredit hanno proposto un’altra misura di emergenza da inserire nella legge di Stabilità. Cioè che i soldi per la ricapitalizzazione siano garantiti dallo Stato, magari attraverso Fondo di investimento per le piccole e medie imprese. L’idea è coprire con una garanzia tra i 3 e i 5 miliardi nuovi investimenti per almeno 100 miliardi, sufficienti per soddisfare le esigenze delle banche.
Ha senso che con i fondi delle piccole imprese si finanzino le banche?
Il punto è che in Europa le banche rappresentano il centro nevralgico dell’intero tessuto economico. Solo per rendere l’idea: Deutsche Bank ha un patrimonio pari all’84% del Prodotto interno lordo (Pil) tedesco e Unicredit al 63% del Pil italiano. Negli Usa le cose vanno molto diversamente: i capitali di JpMorgan sono pari al 15% del Pil americano. E le aziende a corto di soldi possono rivolgersi non solo alle banche ma anche al mercato, cioè alla borsa.
In Italia invece l’85% della attività finanziarie è fondata sugli istituti di credito (dati Bankitalia). In sostanza se chiudono i rubinetti delle banche, il sistema si blocca. Ecco perché Mario Draghi vuole a tutti i costi che resti aperto.