Enzo Bettiza, La Stampa 22/10/2013, 22 ottobre 2013
JOVANKA E LE ALTRE: COSÌ CADONO LE VEDOVE DEI POTENTI DELL’EST
L’accanimento persecutorio con cui venivano generalmente colpite, o segregate come lebbrose le vedove dei defunti grandi personaggi del potere, era una delle caratteristiche di quasi obbligata disumanità caratterizzanti pressoché tutti i poteri comunisti dell’Est. Non appena il capo spariva sotto terra, la vedova, quasi sempre, scompariva anch’essa dalla scena, mimando e inseguendo in una sorta di morte civile la morte fisiologica del marito. In un certo senso si riproduceva quasi, in forma civile, comunque meno crudele dal punto di vista fisiologico, il rito della morte parallela che nella vecchia India condannava la vedova a seguire nella tomba la salma del marito defunto.
Non faceva eccezione alla regola nemmeno la Jugoslavia titoista, nota per la maggiore e direi spesso esornativa morbidezza o flessibilità del suo regime dittatoriale. Difatti, neanche Jovanka, vedova umiliata di Josip Broz Tito, deceduta quasi novantenne tre giorni fa, era riuscita a sottrarsi alla ghigliottina burocratica che l’aveva decapitata ed esclusa dalla scena pubblica quasi subito dopo la morte del potentissimo marito deceduto nel 1980. Il regime, che aveva concesso molto alla consorte, era poi tornato come un usuraio insaziato a riprendersi tutto ciò che le aveva donato o, meglio, «prestato» fin tanto che Tito era ancora ruggente in vita. Alla vedovanza di Jovanka, non più legittimata e coperta dal cono d’ombra del marito vivo e potente, doveva aggiungersi così il contraccolpo di una punizione esemplare, quasi automatica, con la privazione non solo dei beni materiali ma perfino della libertà e dell’identità personale. Si direbbe che i compagni di potere del grande defunto, che essi avevano obbedito forse invidiandolo, probabilmente amandolo poco o facendo mostra di amarlo per finta servile, intendessero riprendersi un’oscura rivincita sulla consorte sopravvissuta che ai loro occhi non rappresentava più alcuna autorità: che rappresentava anzi, nella vulnerabile e solitaria nudità della vedovanza, il crollo di ogni autorità degna di timore e di riguardo. Non erano più in grado di prendersela direttamente con il «re nudo»; potevano prendersela però di riflesso, facilmente, alacremente, almeno con la vedova regale e tutt’altro che denudata. Anzi costantemente ricoperta di gioielli, lustrini, scialli pregiati evocanti regalità, potere, ambizione fisica e simbolica.
La serba Jovanka, nella sua corpulenta sagoma impellicciata di visone, aveva rappresentato accanto al più mitteleuropeo Tito il fascino greve di una bella e soddisfatta matrona balcanica. Quando la coppia incontrava per esempio i regali britannici, l’abbigliatissima Jovanka dominava la scena con la sua sovrabbondante corposità ispessita di perle, orecchini smaglianti, scialli di visone, guanti bianchi ad altezza di gomito. Nulla lasciato al caso: tutto perfetto, tutto molto carico, anche molto orientaleggiante. Al confronto Tito, in occhiali e sobria divisa militare, appariva, più che un feldmaresciallo, il comandante di un modesto plotone austroungarico.
La sua prima morte fu civile e burocratica. Quella che i giornali definivano «una vita dorata» cessò di colpo nel 1977: anno fatidico in cui la portentosa moglie del capo comunista dissidente sparì, di colpo, dalla circolazione, accusata di tramare non si sa quale complotto con i generali serbi di Belgrado. La vertiginosa discesa dalle stelle alle stalle non doveva arrestarsi più. Abbandonata da Tito, che fra l’altro giostra con nuove amanti, è addirittura sospettata di tradimento antistatale; nel 1980, quando Tito muore, le viene ordinato di lasciare la residenza presidenziale e trasferirsi a Dedinje, in una sorta di rifugio dei peccatori, dove sopravvivrà malamente per troppi anni. «Mi cacciarono di casa in camicia da notte senza la possibilità di prendere alcuna delle mie cose più care». Nel 2006 le sarà finalmente riconosciuta una pensione, poi nel 2009 le verranno restituiti il passaporto e la libertà personale, ma non i suoi beni. E’ morta praticamente in uno stato di umiliante indigenza.
«Sic transit gloria mundi» dicono ormai in pochi a Belgrado dove il ricordo della prima vera «first lady» comunista è ormai solo ombra e nebbia. Di quella che negli anni del titoismo ruggente era stata una delle più marcate figure femminili della corte comunista di Belgrado non è rimasto quasi più nulla; sono sempre meno coloro che ne rammentano la figura statuaria, il fascino autorevole, l’eleganza pesante e invadente. La morte di questi giorni è stata solamente fisiologica; la sua morte vera era già avvenuta nel 1980, quando, scomparso anche Tito, venne di fatto spedita al confino o, se si vuole, alla deportazione di Dedinje.