Paolo Mastrolilli, La Stampa 22/10/2013, 22 ottobre 2013
AIUTO, PERDIAMO LA MEMORIA
[Umberto Eco]
«Stiamo usando male le nostre risorse». Si riferisce all’istruzione e alla ricerca, Umberto Eco, quando lancia questo monito. E poi ricorda la battuta dell’allora ministro Tremonti, mentre tagliava il bilancio nel governo Berlusconi: «Qualcuno è andato a dire che con la cultura non si mangia, quando ci sono Paesi come la Francia che invece ci mangiano tantissimo».
Eco ha appena pubblicato in Italia la Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani), ma a New York è venuto per tenere una lectio magistralis all’Onu intitolata «Against the loss of memory», contro la perdita della memoria, e presentare EncycloMedia, la nuova enciclopedia digitale realizzata in collaborazione con la EM Publishers di Corrado Passera e con Danco Singer. Lo incontriamo dopo un evento organizzato alla missione italiana dall’ambasciatore Sebastiano Cardi.
Cosa c’è di male se uno cerca su Internet quando Nixon è stato presidente degli Stati Uniti?
«Niente, di per sé. Ho sempre detto che una persona colta non è quella che sa la data di nascita di Napoleone, ma quella che sa trovarla in cinque minuti. Però non si può partire dal nulla: quando uno non ha nemmeno idea se Nixon è venuto prima o dopo Kennedy, qualcosa non funziona».
Stiamo perdendo la memoria in generale, o la memoria di qualità, a causa dell’abbondanza di informazioni presenti nella rete?
«Tutt’e due. Spesso arrivano questi test in cui scopriamo che gli studenti universitari non sanno nemmeno chi era De Gasperi».
Che problemi genera, questa perdita della memoria?
«Facciamo un paio di esempi pratici: se Hitler avesse letto Guerra e pace, avrebbe capito che invadere la Russia non era una buona idea. Se Bush avesse letto i libri di storia sulle invasioni occidentali dell’Afghanistan, avrebbe fatto scelte diverse».
Le polemiche scoppiate per il funerale di Priebke sono un esempio dei danni provocati dalla perdita della memoria?
«Sono un problema di ordine pubblico. Non credo che la memoria dei suoi atti sia andata perduta».
Quindi EncycloMedia offre informazioni vaste come quelle di Internet, tipo Wikipedia, però filtrate e garantite.
«Questo è un punto, certo. Il problema di Internet è la vastità e l’incertezza delle fonti. Nello stesso tempo, però, EncycloMedia permette di fare collegamenti che la rete non consente. Uno su Internet trova Beethoven, però non sa se componendo l’Eroica aveva in mente Napoleone. Con noi può scoprirlo».
Il mondo è dominato da «Big Data», le informazioni su tutto e su tutti, usate anche dalla politica. È una minaccia per la privacy?
«Della privacy non me ne frega più niente. Un marito deve uscire di casa dicendo che sta andando a trovare l’amante, così tutto è pubblico e tutto ridiventa privato, perché nessuno gli crede. Io sono un utente di Internet, ma sono un privilegiato, perché ho un’educazione che mi consente di filtrare. La televisione è stata un bene per i poveri, perché ha insegnato loro l’italiano, e un male per i ricchi, che invece di andare all’opera sono stati costretti a guardare i suoi programmi. Internet è il contrario: un bene per i ricchi, che sanno come usarlo, e un male per i poveri, naturalmente non i poveri in senso economico, che non sanno distinguere».
Ma «Big Data» non le fa paura?
«Non è un problema culturale, ma politico. Cosa vuol dire vivere in una società dove tutti sanno che alle 18,30 ho preso l’autostrada per Varese? La mia impressione è che raccogliendo tutti questi dati, alla fine non interesseranno più a nessuno».
L’informazione oggi viaggia anche sui social media, ma scrittori come Jonathan Franzen dicono che sono dannosi. Lei cosa ne pensa?
«Non sono su Facebook, non sono Linkedin, non sono su nulla. La cosa non mi interessa, non mi lascio distrarre».
Lei è venuto all’Onu in un momento di grande incertezza: sembra che nessuno governi più il mondo. Questo disorientamento nasce anche dall’eccesso di informazione, spesso sbagliata?
«Un principio di anarchia c’è, ma non mi sento di dare una risposta».
L’Italia sembra più smarrita degli altri, o comunque più arretrata.
«Il problema culturale tecnico è che siamo meno cablati di tanti altri Paesi. Pensavamo di stare meglio della Francia, che invece è cablatissima. Questo piano piano ci porrà in una situazione di svantaggio, di disagio, e quindi bisognerebbe pensarci. Ma fa parte del problema generale dell’educazione e della ricerca».
È un ritardo che ci penalizza sul piano globale?
«In questo momento sì. Certamente c’è un gap nell’educazione, quando non si finanzia abbastanza la ricerca. Qualcuno è andato a dire che con la cultura non si mangia, mentre Paesi come la Francia ci mangiano tantissimo. Stiamo usando male le nostre risorse».
Il ritardo nell’istruzione e nella ricerca è l’emergenza principale per l’Italia?
«È una delle tante. Ne abbiamo diecimila, dalle tasse alla disoccupazione».
Qualche tempo fa lei si era definito un «ottimista tragico». È ancora così, o sta prevalendo il pessimismo?
«Sto cercando ancora di essere un ottimista, tragico».
Quindi ce la caveremo, nonostante i ritardi dell’Italia?
«Forse sì. E se non ve la cavate, io non ci sarò più».