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 2013  ottobre 22 Martedì calendario

L’IMPERO DEL DOLLARO IN STALLO POLITICO


I Paesi industrializzati sono alle prese con la crescita stentata, gli emergenti devono adattarsi a flussi di capitale instabili. La disfunzionalità politica Usa ha messo in secondo piano problemi fondamentali.

La minaccia di un default americano è stata sventata - per ora - ma il nodo resta: per Repubblicani e Democratici negoziare un compromesso sul bilancio sembra comportare costi maggiori che non impegnarsi in un braccio di ferro sull’orlo dell’abisso. Siamo di fronte a una sottovalutazione dei costi a lungo termine. Qualunque cosa in più di un default tecnico di breve durata infliggerebbe danni tali alla stabilità interna e alla crescita che il sistema politico non potrebbe reggere il contraccolpo. I detentori di buoni del Tesoro, in America e all’estero, vedrebbero un default deliberato come un tradimento della fiducia. Qualcuno si sente rassicurato da questo fatto: sembra suggerire che non si arriverà mai al default. Ciò significa che la fragile economia mondiale, dipendente (per ora) da un unico Paese per la sua valuta di riserva, può sopportare le buffonate della politica Usa.
L’andamento del processo decisionale (o meglio non decisionale) negli Usa ha già creato rischi aggiunti, che si rifletteranno in una pressione al rialzo sui tassi di interesse: e poi entrerà in gioco la Fed. Lungi dal ridurre gli acquisti mensili di titoli a lungo termine, possiamo immaginarci che il già cospicuo stato patrimoniale della Fed dovrà espandersi per contrastare gli effetti negativi di un aumento imprevisto - e rapido - del servizio del debito. E questo in un momento in cui molti (me compreso) sono convinti che dato il rafforzamento dell’economia americana sarebbe cosa saggia abbandonare progressivamente le misure di puntello.
Nel resto del mondo, anche un default tecnico produrrebbe effetti gravi. L’Eurozona deve fare i conti con problemi strutturali e di ribilanciamento, ma è riuscita a creare una finestra di stabilità sui debiti pubblici: in caso di default Usa, comincerebbe ad attirare flussi di capitali che provocherebbero una rivalutazione dell’euro, andando ad aggravare la situazione e rendendo impossibile una ripresa della periferia; potrebbero rendersi necessarie misure per contrastare l’«eccesso» di flussi di capitali in ingresso.
La Cina e altri Paesi detentori di titoli di Stato Usa subiranno perdite di capitale, in aggiunta a quelle determinate dall’inevitabile rivalutazione delle loro monete. Nel marzo 2009, Zhou Xiaochuan, Governatore della Banca popolare della Cina, sosteneva che il ruolo del dollaro come principale moneta di riserva andava contro gli interessi dell’economia globale e degli stessi Stati Uniti. In un’economia mondiale in espansione, il Paese fornitore della valuta di riserva è spinto verso disavanzi delle partite correnti, e di conseguenza verso un modello di crescita basato sull’indebitamento, che erode la sua forza e la sua indipendenza costringendolo ad affidarsi sempre più a capitali esteri.
Ora vediamo che l’economia globale non dipende solo dalla forza del Paese che fornisce la valuta di riserva, ma anche dai suoi valori, dalla sua disponibilità ad anteporre gli obblighi internazionali fondamentali alle diatribe interne. La crisi di governance americana ha rimesso in discussione questo aspetto. Gli effetti di lungo periodo del paventato default saranno largamente negativi. Per cominciare, rafforzeranno l’idea che le politiche economiche e le relative dispute debbano essere condotte tenendo conto dei problemi e degli interessi nazionali, senza curarsi degli effetti sistemici globali, nonostante questi effetti diventino più importanti. Certe fazioni all’interno del sistema politico americano non sembrano rendersi conto delle enormi ricadute negative che produrrebbe sull’economia interna uno sconvolgimento del sistema finanziario globale. In secondo luogo, i detentori di titoli americani quasi certamente cominceranno a vedere i Treasuries come attività rischiose e cercheranno di diversificare. Non è necessariamente un male (una fuga in massa dai titoli Usa è improbabile: produrrebbe effetti autodistruttivi per molti Paesi, Cina compresa) ma la transizione potrebbe essere accidentata. In terzo luogo, la disponibilità a tenere ostaggio il merito di credito dell’America per fini politici interni accelererà il declino dell’influenza americana sul piano della governance e della gestione dell’economia globale. Nel breve e medio termine, questo declino potrebbe creare un vuoto e produrre instabilità e rischi maggiori, perché, come molti hanno osservato, sono in pochi a poter prendere il posto degli Stati Uniti. La tendenza a una diminuzione del potere degli Usa era già in corso, e in un certo senso è inevitabile. La speranza era che la transizione sarebbe stata graduale e stabile, con gli Usa a interpretare un ruolo guida. Infine, il rischio di default degli Usa potrebbe riportare in primo piano le proposte di Zhou nel 2009 e accelerare la ricerca di un’alternativa praticabile al modello «valuta di riserva emessa da un unico Paese», che ormai non è più utile. Nessuno vuole che il sistema globale sia esposto ai capricci della lotta politica interna di un solo Paese.
L’economia globale dovrà fronteggiare prove terribili: problemi di crescita, occupazione e distribuzione della ricchezza; una riforma istituzionale in Europa; le complessità della transizione da Paese a medio reddito a Paese ad alto reddito in Cina; la necessità di ridurre la povertà nel mondo. Per gestire queste sfide è necessario disegnare un sistema di governance globale in cui la politica interna di un Paese non rischi di mettere in pericolo le prospettive di tutti gli altri.
(Traduzione di Fabio Galimberti)