Franca Giansoldati, Il Messaggero 22/10/2013, 22 ottobre 2013
PADRE GEORG: «COSÌ RIESCO A OCCUPARMI DI DUE PAPI»
Fa un lavoro senza precedenti: occuparsi di due Papi contemporaneamente, Francesco e Joseph Ratzinger, non è cosa che accade tutti i giorni. Monsignor Georg Gaenswein, già segretario particolare di Benedetto XVI e ora Prefetto della Casa Pontificia è l’uomo ponte, la memoria storica dei giorni della rinuncia, il collegamento tra il vecchio e il nuovo. Ma guai a parlargli di «rivoluzione» in corso perché a suo dire sarebbe «fuorviante».
Nel senso che la rivoluzione era già iniziata da prima. Sulla talare nera “don Giorgio”, come lo chiamano in curia, indossa una semplice croce d’argento («è quella dell’Anno della Fede con lo stemma di Benedetto XVI dietro») in ottemperanza all’imperativo che si è fatto largo al di là del Tevere, all’insegna della sobrietà.
Quanto è complicato lavorare per due Papi?
«Diciamo che è una bella sfida, a prescindere dalla mole di cose da sbrigare. Ogni tanto vorrei chiedere consigli al mio predecessore ma non c’è, perché nessuno prima di me ha mai avuto questo doppio compito. Tuttavia, con il buon senso, faccio del mio meglio. Metto in pratica le parole di Papa Francesco: mai chiudersi in se stessi e non avere paura; così ogni giorno percorro il sentiero sereno. Prima l’attenzione era tutta per Benedetto XVI, ora è ovviamente per Francesco, ma alla fine il servizio viene fatto per il Signore e per la Chiesa. Ammetto però di avere avuto qualche difficoltà, qualche esperienza spiacevole riguardante incomprensioni e invidie; ma nel frattempo le onde si sono calmate».
In Vaticano non c’è il rischio di avere un Papa e un antipapa?
«Per nulla. C’è un Papa regnante e un Papa emerito. Chi conosce Benedetto XVI sa che questo pericolo non sussiste. Non si è mai intromesso e non si intromette nel governo della Chiesa, non fa parte del suo stile. Il teologo Ratzinger, inoltre, sa che ogni sua parola pubblica potrebbe attirare l’attenzione, e qualsiasi cosa dicesse verrebbe letta o pro o contro il suo successore. Quindi pubblicamente non interverrà. Per fortuna tra lui e Francesco c’è un rapporto di sincera stima e affetto fraterno».
Come vive Ratzinger chiuso nel convento sul colle vaticano?
«Sta bene, prega, legge, sente musica, si dedica alla corrispondenza, che è tanta, e ci sono anche delle visite; facciamo ogni giorno una passeggiata assieme nel boschetto dietro il Monastero recitando il rosario. La giornata è ben programmata».
Le sue dimissioni sono state una sorpresa anche per lei?
«Non del tutto, conoscevo da tempo la sua decisione ma non ne ho parlato mai con nessuno. Il momento dell’annuncio, l’11 febbraio, resta indelebile. Dopo il 28 febbraio sono iniziati giorni difficili quando siamo partiti dal Vaticano. Non scorderò mai quando ho spento le luci dell’appartamento pontificio con le lacrime agli occhi. Poi la corsa in auto fino all’eliporto, il volo a Castel Gandolfo, l’arrivo, l’ultimo saluto di Benedetto XVI al balcone. Infine la chiusura del portone del palazzo. Tutto il mese di marzo è stato duro, anche perché non si sapeva chi avrebbero eletto al conclave. Fortunatamente con il nuovo Papa si è creato da subito un rapporto umano d’affetto e di stima, anche se Benedetto e Francesco sono persone con stili e personalità diversi. Qualcuno ha voluto interpretare tali differenze in modo antitetico. Ma non è così».
In cosa consiste la Chiesa povera di Francesco?
«Sto cercando di capire sempre di più cosa significhi. Una cosa mi sembra chiara: l’espressione “Chiesa povera” è diventata un filo conduttore nel ministero petrino di Papa Bergoglio. Ma in primo luogo non è una espressione sociologica bensì teologica, al centro è il Cristo povero, e da lì segue tutto. Senza dubbio tocca lo stile di vita di ogni cristiano, richiede una attenzione particolare ai sofferenti ai malati e ai poveri in senso stretto. Se si dà una sguardo al passato, si percepisce che Papa Francesco sta realizzando a Roma quello che in precedenza aveva fatto a Buenos Aires. Non ha cambiato la sua linea nè il suo stile. Semmai il punto è un altro».
Quale?
«Che con il suo esempio offre a tutti una preziosa testimonianza. L’esempio personale è un metodo pastorale».
E la rivoluzione in atto?
«Parlare di rivoluzione mi sembra un facile slogan che alcuni mass media cavalcano volentieri. Certo alcuni gesti e iniziative di Papa Francesco hanno sorpreso e sorprendono ancora. Ma è normale che un cambio di pontificato porti con sé cambiamenti su diversi livelli. Il nuovo pontefice deve per forza farsi una squadra con persone di sua fiducia. Questa non è però una rivoluzione, è semplicemente un atto di governo e di responsabilità».
Intanto gli 8 cardinali stanno studiando le riforme...
«Certo, l’istituzione di questo gruppo è stata una grande sorpresa, una delle tante. Ma a vedere bene, rientra nei compiti propri dei cardinali che sono i primi consiglieri del pontefice. I cardinali si sono incontrati una prima volta all’inizio di questo mese, e seguiranno altri incontri. Penso sia esagerato voler prevedere già adesso risultati definitivi. Ci vuole tempo. Prima del risultato, c’è la fase della riflessione, della discussione, dell’approfondimento. Confesso che sono curioso di vedere cosa verrà fuori».
La razionalizzazione comporterà anche tagli al personale?
«Forse bisognerebbe fare chiarezza sui termini. Cosa si intende quando si parla di razionalizzazione? È ovvio che la Santa Sede ha responsabilità verso tutti coloro che lavorano nei diversi dicasteri. Razionalizzare è una parola che richiede una spiegazione, altrimenti rimane senza senso. Aggiungo che se paragoniamo, per esempio, i nostri organici a quelli delle diocesi tedesche questi ultimi sono contenuti».
E’ vero che Papa Ratzinger fu tenuto all’oscuro della cacciata di Gotti Tedeschi dallo Ior?
«Ricordo bene quel momento. Era il 24 maggio. Quel giorno vi fu anche l’arresto del nostro Aiutante di Camera, Paolo Gabriele. Contrariamente a quello che si pensa non vi è nessun nesso tra i due eventi, semmai solo una coincidenza sfortunata, persino diabolica. Benedetto XVI che aveva chiamato Gotti allo Ior per portare avanti la politica della trasparenza, restò sorpreso, molto sorpreso per l’atto di sfiducia al professore. Il Papa lo stimava e gli voleva bene, ma per rispetto delle competenze di chi aveva responsabilità scelse di non intervenire in quel momento. Successivamente alla sfiducia il Papa per motivi di opportunità anche se non ha mai ricevuto Gotti Tedeschi, ha mantenuto i contatti con lui in modo adatto e discreto».
Franca Giansoldati