Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 22 Martedì calendario

LA VERITÀ E LA LEGGE


[Carlo Ginzburg]

«Quello contro il negazionismo è un disegno di legge inaccettabile. Reputo grave il modo dilettantesco con cui la classe politica l’ha riproposto, senza tenere conto delle serie obiezioni mosse in passato su questo tema». Carlo Ginzburg è lo storico italiano più conosciuto all’estero. Figlio di due ebrei illustri, Leone e Natalia, ha intercettato nelle sue vaste ricerche il tema del complotto e della persecuzione. «È una materia scottante e molto dolorosa. Ma proprio per questo non ho paura dell’aggettivo “freddo”: è mancata un’analisi distaccata, fredda, razionale su un provvedimento che rischia di produrre effetti gravi».
La nuova legge è ora affiorata in Parlamento in coincidenza di due fatti incrociati: la morte dell’aguzzino Priebke, seguita dalla vicenda tempestosa della sua sepoltura, e il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto, con gli oltre mille ebrei condotti a morire.
«Sì, questo duplice contesto ha creato una forte emozione pubblica. Ma le emozioni non sono mai consigliere di buone leggi. E allora la prima operazione che dobbiamo fare è recidere il legame tra questo nuovo disegno di legge e i contesti immediati in cui è stato proposto».
Perché il disegno di legge non la convince?
«Vanno fatte due valutazioni diverse: una riguarda il principio e l’altra l’opportunità. Dico subito che a mio parere entrambe portano a giudicare in maniera negativa questo disegno di legge. Sul piano del principio, è inammissibile imporre per legge un limite alla ricerca. È un punto di principio che prescinde dal contenuto. Le tesi dei negazionisti sono ignobili dal punto di vista morale e politico e non costituiscono in alcun modo una provocazione sul piano intellettuale. Nessuno storico può essere indotto a rivedere le proprie argomentazioni sulla base di queste tesi. Però sul piano del principio non si possono porre dei limiti alla ricerca. E non sono ammesse eccezioni».
E le ragioni di opportunità?
«I negazionisti sono farabutti in cerca di pubblicità. Cercano un “martirio” a buon mercato e colgono ogni pretesto per farsi propaganda. Nei paesi in cui è stata adottata la legge, i tribunali sono diventati una formidabile cassa di risonanza delle loro tesi. Ma poi si aggiunge una seconda ragione di opportunità, e qui entriamo in un terreno più delicato».
Quale?
«È quello che investe la ricerca storica. Parlo per esperienza diretta. Mi sono trovato, in un contesto accademico non italiano, a discutere un lavoro che ho definito, con un giudizio messo agli atti, “un caso di negazionismo felpato”, morbido. In esso non venivano formulate tesi negazioniste esplicite: però, attraverso una serie di distinguo, si avanzava una conclusione che andava implicitamente in quella direzione. Portare un caso del genere in tribunale sarebbe una follia. Se ne possono immaginare molti altri: la ricerca è fatta di argomentazioni che non s’identificano sempre con l’alternativa tra bianco e nero».
Poi quello del genocidio è un tema di discussione continua tra gli storici. Si fatica a trovare una nozione condivisa.
«Cosa distingue lo “sterminio” dal “quasi sterminio”? Sembra la traduzione tragica di un problema logico posto dai greci: il sofisma del sorite (o del mucchio) detto anche dell’uomo calvo. Se ti strappo un capello, diventi calvo? E se te ne strappo due? O tre? Ora, nel caso del genocidio, non si tratta di capelli immaginari ma di vite umane. A che punto scatta la nozione di genocidio? Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussione possa finire in tribunale. Se poi qualcuno arriva a sostenere che quello che è successo in Europa tra il 1941 e il 1945 non è stato un genocidio, allora è inutile discutere: chi pronuncia queste affermazioni si autoesclude dalla comunità storiografica. Ma non si porta alla sbarra».
Il testo della legge è molto generico: punisce chi nega l’esistenza del genocidio ma anche dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. Indro Montanelli, che ha a lungo negato l’uso del gas iprite in Etiopia, sarebbe finito in galera.
«Sul livello morale di Montanelli rinvio al libro, molto documentato, di Renata Broggini: Passaggio in Svizzera. Certo quello che lei cita è un caso che avrebbe dato origine a un contenzioso giuridico assurdo. Non sono queste le cose da portare in tribunale. Ho l’impressione (ma posso sbagliare) che oggi gli storici italiani siano abbastanza compatti contro la legge. Non c’è unanimità, ma quasi. Anche per questo colpisce la quasi unanimità, ma di segno contrario, della classe politica».
Il dissenso grillino ha riguardato più la modalità di approvazione che il contenuto della legge. Qualcuno tra gli storici si domanda se il negazionismo vada penalmente condannato perché servirebbe a contrastare la possibilità della discriminazione e della persecuzione.
«Non c’è dubbio che l’antisemitismo dichiarato sia oggi molto più presente, in Italia, rispetto a dieci anni fa. Un antisemitismo complesso, in cui confluiscono sia una componente neonazista sia una componente di sinistra, che identifica il capitalismo con la finanza ebraica. Un libro recente di Michele Battini ci ricorda che questo antisemitismo di sinistra ha radici nell’Ottocento, tra i seguaci di Proudhon. E poi c’è una terza componente, più recente, che si nutre dell’ostilità alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi. È una politica che mi ripugna: ferocemente ingiusta e (nel lungo periodo) tendenzialmente suicida. Ma l’antisionismo è stato ed è, molto spesso, una maschera dell’antisemitismo».
Questa pericolosa miscela agisce anche in altre parti d’Europa.
«In Italia però l’antisemitismo s’inserisce in un panorama più ampio, caratterizzato da un razzismo vergognoso che, diversamente da quanto succedeva in passato, è entrato a far parte del discorso pubblico. Basti pensare agli insulti contro la ministra Kyenge, che hanno fatto il giro del mondo. Oggi l’immagine dell’Italia nel mondo include anche questo. Potrebbero verificarsi episodi di razzismo ancora peggiori di quelli ai quali assistiamo: ma una legge che punisse il negazionismo non servirebbe a impedirli».
Adriano Prosperi ha sostenuto che sia la propaganda negazionista sia le leggi improvvide per combatterla sono sintomi di un problema italiano: non aver fatto i conti fino in fondo con la Shoah.
«I crimini compiuti dal nazismo sono stati di gran lunga superiori, per entità, a quelli compiuti dal fascismo. Ma anche il processo di elaborazione si è svolto, nei due paesi, in modo molto diverso. In Italia la Resistenza è stata usata come un alibi per rimuovere il passato. Anche in Germania, nel dopoguerra, c’è stata continuità col nazismo, in alcuni settori: l’università, la burocrazia. E il Sessantotto ha rappresentato una vera cesura: una resa dei conti con la generazione dei padri, compromessa col nazismo. Oggi, un fenomeno ripugnante come quello che si è verificato in Italia – un vero sdoganamento del razzismo – sarebbe impensabile in Germania».
Al di là del giudizio morale, un tratto che colpisce nel negazionismo è l’aspetto paradossale: a essere negato è uno degli eventi più documentati della storia umana.
«Il negazionismo si alimenta di molte cose: per esempio, del mito del complotto degli ebrei. Da quando in Francia, nel 1321, circolò la voce che i lebbrosi, istigati dagli ebrei, avevano cercato di avvelenare i cristiani, le versioni del complotto sono state innumerevoli, fino ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion e oltre. È un elemento che differenzia l’antisemitismo da altre forme di razzismo: nessuno ha mai parlato, credo, di complotti dei neri americani contro i bianchi. Ma dietro il fantasma del complotto si legge l’ambivalenza, il timore della superiorità attribuita agli ebrei. E di un complotto della lobby ebraica, ricca e potente, abbiamo sentito parlare anche di recente ».
Forse è anche per la sua ambivalenza che la teoria del complotto ebreo trova oggi terreno fertile tra i giovani impauriti di realtà depresse, sul piano economico e culturale. È un fenomeno che vediamo anche in Italia.
«Questo è vero. Basti vedere quel che succede in Ungheria. In una situazione di crisi profonda la proposta di un capro espiatorio preconfezionato può avere successo. Ma a questo pericolo non si risponde con una legge. Il terreno privilegiato per contrastarlo è la scuola».