Sergio Romano, Corriere della Sera 22/10/2013, 22 ottobre 2013
IN SIRIA SI COMBATTE ANCORA MA LA POSTA IN GIOCO È CAMBIATA
Sarà un’impressione, ma dalla telefonata tra il presidente statunitense e quello iraniano si parla sempre meno della guerra civile siriana. Possibile che esista un nesso in questo disinteresse mediatico? E che sui piatti della bilancia dell’opportunismo politico (...anche se potrebbe essere definito tranquillamente cinismo!) il disgelo tra Usa e Iran sia più importante della caduta di Assad? Rendendo, in sostanza, sacrificabili i ribelli siriani?
Mario Taliani
mtali@tin.it
Caro Taliani,
La guerra civile continua e non mancherà di tornare sulle prime pagine. Ma è certamente vero che l’accordo sulla distruzione delle armi chimiche siriane e la nuova politica dell’Iran dopo l’elezione di Hassan Rouhani hanno parzialmente cambiato i termini del problema. Per due anni, sin dalle prime manifestazioni contro il regime di Bashar Al Assad, vi è stata nella posizione degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali una combinazione di considerazioni umanitarie, correttezza ideologica e calcoli politici. Bisognava denunciare le violenti repressioni del regime perché questa era la richiesta delle opinioni pubbliche democratiche. Bisognava chiedere ad Assad di uscire della scena siriana perché l’Occidente aveva l’obbligo morale di facilitare il passaggio alla democrazia in tutti i regimi tirannici dell’Africa settentrionale e del Levante. Ma bisognava anche cogliere l’occasione per scalzare dalla regione due Stati, la Russia e l’Iran, che agli occhi dell’America, anche quando Washington non lo diceva espressamente, erano pericolosi intrusi e potenziali nemici.
La Russia era alleata della Siria, aveva una piccola base navale sulle sue coste e assicurava alle forze armate del regime di Assad una buona parte del loro arsenale. L’Iran finanziava e armava le milizie sciite di Hezbollah, vale a dire il più prezioso alleato del governo di Damasco nella sua guerra contro i ribelli. La sconfitta di Assad avrebbe costretto la Russia e l’Iran a uscire dal Mediterraneo. Obama sapeva che la vittoria dei ribelli avrebbe creato nuovi problemi e acceso sul futuro della regione nuove ipoteche. Ma in una larga parte dell’establishment americano prevaleva allora il desiderio d’infliggere un colpo a Mosca e a Teheran.
Il quadro è cambiato quando Obama, trascinato dalle proprie parole, si è visto improvvisamente costretto a scegliere fra una dichiarazione d’impotenza e una rischiosa spedizione punitiva contro il regime di Assad. Putin lo ha tratto d’imbarazzo proponendo la distruzione delle armi chimiche siriane; e la nuova linea politica di Rouhani, più o meno contemporaneamente, gli ha permesso di neutralizzare, almeno per il momento, il partito di coloro che sostengono la linea intransigente del governo israeliano contro l’Iran. Naturalmente sarà più difficile, d’ora in poi, negare a Mosca e a Teheran il diritto di avere una presenza politica nell’Africa del Nord e nel Levante. Dovremmo esserne preoccupati? A me sembra che una tale prospettiva potrebbe essere utile alla pace. Parlando di un avversario politico il presidente americano Lyndon Johnson disse un giorno: It’s probably better to have him inside the tent pissing out than outside the tent pissing in (è meglio che stia dentro la tenda facendo pipì verso l’esterno, piuttosto che fuori della tenda facendo pipì verso l’interno).