Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 22/10/2013, 22 ottobre 2013
L’ISTRIA, UN MUSICAL E LE FERITE MAI CHIUSE
Quando smetteranno di buttare sangue le ferite degli esuli dall’Istria? Mezzo secolo dopo, Simone Cristicchi è alle prese con le solite etichette: di qua è un mezzo fascista, di là un mezzo comunista. L’accusa, da sinistra e da destra, è la stessa a parti ovviamente rovesciate: col nuovo recital teatrale non racconta la tragedia dell’esodo vista per schemi: tutti i buoni di qua, tutti i cattivi di là.
Basterebbe ascoltare la canzone «Magazzino 18» che dà il titolo al «musical civile» che debutta stasera allo «Stabile Rossetti» di Trieste per capire da che parte sta il cantautore che, dopo aver vinto Sanremo, ha sempre più allargato i suoi interessi dalla musica al teatro e ai libri. Sta con quei 350 mila italiani che, pressati dalla pulizia etnica titina, vennero buttati fuori dall’Istria, dal Quarnero, dalla Dalmazia.
Comincia così, quella canzone dolente: «Siamo partiti in un giorno di pioggia / cacciati via dalla nostra terra / che un tempo si chiamava Italia / e uscì sconfitta dalla guerra». E in un monologo su YouTube dove riprende «1947» di Sergio Endrigo dedicata a Pola («Da quella volta non l’ho rivista più…») Cristicchi chiarisce ancora meglio il peso che dà alle ragioni e ai torti.
«Processi sommari ed esecuzioni di massa non risparmiarono nemmeno antifascisti e comunisti perché, in realtà, tutto quello che era italiano era considerato “fascista”», dice nel monologo pubblicato in «Mio nonno è morto in guerra», «Amici e parenti sparivano dal giorno alla notte, senza lasciare traccia, portati via con violenza dalle milizie titine e spesso gettati nelle foibe a due a due: il più fortunato si prendeva una pallottola in testa, l’altro veniva trascinato giù dal compagno, ancora vivo».
Una tesi più che sufficiente perché, ha raccontato al Giornale Jan Bernas, l’autore di «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani» e co-autore dello spettacolo teatrale, arrivassero «da ambienti di estrema sinistra e sezioni locali dell’Anpi degli attacchi molto duri» e l’accusa a Cristicchi di essere «un revanscista che nega i crimini del fascismo». Simone conferma: «Se prima mi pensavano di sinistra, a un certo punto mi hanno visto come un destrorso».
Ora, di colpo, è tornato «comunista». O comunque filotitino. O come minimo servo inconsapevole degli «slavi infoibatori». Gli è bastato inserire in «Magazzino 18», che racconta la tragedia dell’esodo partendo da quel deposito portuale dove furono ammassati duemila metri cubi di sedie e comò, scarpe e tegami e perfino un «balighetto» (la bustina di cuoio in cui era riposta la placenta dei neonati «nati con la camicia») la lettera di sei righe di una bambina slovena che ricorda la morte del papà nel campo di prigionia fascista di Arbe.
Non l’avesse mai fatto! «È una visione giustificazionista degli eccidi slavo-comunisti e dell’esodo», ha detto al Piccolo il leader di Fratelli d’Italia Fabio Scoccimarro. Spiegando che inserire delle letture «nella lingua degli aguzzini degli esuli in uno spettacolo che ne ricorda il dramma è una provocazione».
Più ancora che la lettera della bambina, in realtà, a far infuriare gli esuli più accesi sarebbe stata un’ipotesi. Quella che lo spettacolo desse voce anche a una frase dello scrittore Boris Pahor sull’incendio appiccato dalle camice nere nel 1920 al «Narodni dom», la casa del popolo degli sloveni triestini conosciuta anche come Hotel Balkan: «Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca, dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco».
Una cronaca, in sé, non dichiaratamente nemica. Il guaio è che Pahor è un nazionalista sloveno così acceso da essere accusato anche dagli esuli moderati come Lucio Toth di non aver «mai speso una parola, neppure una sulla cacciata degli italiani».
Va da sé che, come ha saputo dell’ipotesi, l’ex presidente del teatro aennino (retrocesso dalla sinistra a vice) Gilberto Paris Lippi ha dato fuoco sul Piccolo alle polveri: «Agli autori è stato suggerito di aggiungere la lettura di una citazione di Boris Pahor che parla del Balkan e la lettura di una poesia recitata da una bambina in sloveno con i sottotitoli in italiano». Il tutto per alleggerire le colpe slave: «Cosa c’entrano il Balkan e la lettura in sloveno? È uno schiaffo per Trieste e gli esuli». E di chi poteva essere mai l’ingerenza se non di Milos Budin, il nuovo presidente già deputato diessino e appartenente alla minoranza slovena? Piccantissimo, Budin spiega d’essersi solo accertato che lo spettacolo fosse «in linea con le condizioni di unità raggiunte dalla nostra società» e non creasse insomma nuove lacerazioni. Poi si sfoga ricordando d’essere stato lui tra i primi a riconoscere la tragedia della cacciata degli italiani fino a tirarsi addosso le ire dei nazionalisti della «sua» minoranza slovena a partire da proprio da Boris Pahor. Come osano dunque dipingerlo come un censore rosso?
«La verità è che quel pezzo avevo già deciso di toglierlo perché non funzionava e perché so che Pahor divide», giura Cristicchi, «Così come ho tolto Maria Pasquinelli, la maestra fascista che uccise nel 1947 il generale Robert de Winton che a Pola rappresentava quegli alleati che avevano dato l’Istria alla Jugoslavia. Non voglio che questa storia continui a dividere. Tutto qui».
E lì torniamo: pezzi della sinistra nostalgica rinfacciano al cantautore di non raccontare la «loro» versione rossa della storia, pezzi della destra di non raccontare la «loro» versione nera. Come Massimiliano Lacota, che a nome degli esuli più destrorsi ha ritirato l’autorizzazione a Cristicchi a usare le foto dell’esodo che gli aveva prestato e ha tuonato: «La comunità slovena è riuscita a sabotare il primo spettacolo sull’esodo realizzato da un giovane sensibile ed equilibrato». Sabotaggio per sabotaggio, al teatro non andrà. Anzi, qualcuno sarebbe tentato di piantare pure casino…
La Federazione degli esuli che rappresenta larga parte delle associazioni, però, la pensa diversamente. E con il suo presidente Renzo Codarin getta acqua sul fuoco. Pahor non andava bene («ha sempre avuto parole molto negative sugli esuli») ma tolto lui «Cristicchi porterà in scena il testo che ha deciso e coloro cui non piace se ne scriveranno un altro». Antonio Ballarin, presidente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, va più in là: «Avendo avuto la possibilità di leggere una versione del meraviglioso testo dell’opera di Cristicchi…» Ma alla fin fine sono parole: vogliamo vederlo, questo musical civile, per parlarne «dopo»?
Gian Antonio Stella