Isabella Bossi Fedrigotti, Corriere della Sera 22/10/2013, 22 ottobre 2013
L’INCOSCIENZA, LA FATALITÀ E L’INCUBO DI CHI GUIDA
Non c’è dubbio che l’automobile andasse troppo veloce, come non c’è dubbio che la mamma in attesa abbia attraversato, con il bambino per mano, quella specie di autostrada che è viale Famagosta, lontana dalle strisce pedonali; e nemmeno c’è dubbio che la strada sia per troppo tempo stata lasciata senza un dispositivo utile a frenare il traffico, costringendo a un limite di velocità almeno ragionevole visto che siamo ancora in città. In più, erano le sette di sera e, dunque, buio quasi totale in questa stagione. Se non ci fossero tre morti — una giovane donna e i suoi due bambini, uno dei quali non ancora nato — che inevitabilmente costringono a prendere le loro parti, le parti dei più deboli, si vorrebbe quasi dire che la tragedia dell’altra sera alla Barona è stata un mix di incoscienza e di micidiale fatalità. Posto che correre troppo in automobile resta, comunque, il grande, imperdonabile e assai troppo diffuso misfatto, tuttavia, quanti sono coloro che non corrono, quanti non hanno mai corso, specialmente lungo un’arteria come quella che somiglia pericolosamente a una superstrada? Non tutti coloro che corrono sono dei criminali, non tutti sono dei pirati, lo sappiamo fin troppo bene, come non tutti coloro che corrono sono strafatti di alcool o di droga.
Difficile, perciò, non considerare che c’è anche una quarta vittima dell’incidente, il conducente dell’auto assassina (che non è scappato ma si è fermato e ha chiamato i soccorsi) cioè. Colpevole, ovviamente, di omicidio colposo, però certamente insieme vittima: del buio che impediva la vista e dell’imprudenza, sua e della poveretta che ha falciato. Vittima sia pure di secondo grado, perché lui è vivo e gli altri no, ma comunque condannato a uno strazio profondo e lungo, forse incancellabile. Uccidere un bambino e una donna incinta non può lasciare indifferente una persona normale, molto probabilmente costretta a non dimenticare mai più quei corpi straziati sull’asfalto, il lago di sangue e le povere cose rimaste in strada, una scarpa, una borsetta, un indumento, pezze d’appoggio di vite cancellate nel breve istante di una domenica sera.
Pietà si vorrebbe, dunque, chiedere anche per il principale responsabile della tragedia — l’uomo che correva troppo — condannato per sempre dal ricordo, punizione ben più dura di quella che mai lo Stato gli potrebbe infliggere.