Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 22/10/2013, 22 ottobre 2013
FINI: BERLUSCONI NON È AFFATTO FINITO PER ALFANO LA CONVIVENZA SARÀ DIFFICILE
Gianfranco Fini, dov’è stato in tutto questo tempo?
«In famiglia. Mi sono goduto le mie figlie. Ho letto più libri quest’estate che in tutti questi anni. Ne ho anche scritto uno».
«Il ventennio», in uscita da Rizzoli. Il protagonista, o l’antagonista, è ovviamente Berlusconi. Lei lo critica sul piano politico. Ma sul piano umano ne parla senza acrimonia, almeno fino al racconto della rottura. Come mai?
«Sarebbe acrimonia verso me stesso. Lo conosco da 30 anni, da quando l’Msi appoggiava le tv private. Per 17 anni siamo stati alleati e abbiamo avuto una stretta frequentazione».
Com’era con lei Berlusconi in privato?
«Sempre seducente e simpatico. Mai autoritario e protervo. Persino l’ultima volta che è venuto da me con Gianni Letta, a chiedermi due cose impossibili — vietare di fatto le intercettazioni e tagliare la prescrizione dei reati —, di fronte al mio rifiuto ha sorriso: “Non voglio litigare con te. Per litigare bisogna essere in due”».
E lei cosa rispose?
«Che per divorziare basta uno solo. Subito dopo mi sono morso la lingua: sua moglie Veronica se n’era appena andata sbattendo la porta. Dal Pdl invece sono stato cacciato io. Se avessi ceduto sulla prescrizione, Berlusconi avrebbe evitato la condanna definitiva in Cassazione. Ma io questo allora non lo sapevo. Né avrei potuto rispondergli in modo diverso».
Nel libro lei scrive che il Cavaliere non è bugiardo. Ne è sicuro?
«Sì. Berlusconi non mente; rimuove. E’ del tutto incapace di ammettere un errore. Ha bisogno di convincersi che le cose siano andate esattamente come dice lui; altrimenti non riuscirebbe a convincere gli altri».
Lei racconta che nel 2010 Berlusconi motivò così la scelta di Alfano: «È giovane, leale, rispettoso a tal punto da darmi del lei».
«È vero. Berlusconi scelse Alfano non come segretario di partito, ma come suo segretario particolare. Ora Alfano ha dimostrato di avere il “quid”. Ma per lui non sarà facile restare “diversamente berlusconiano”».
Pensa che la scissione nel Pdl sia inevitabile?
«Non lo so. Temo che non sia possibile convivere nello stesso partito con Berlusconi, esprimendo una posizione diversa. Oggi lui è più debole. Ma continua a voler comandare il Pdl come faceva a Mediaset o al Milan. Se decadrà da senatore, griderà che non si può restare al governo con i propri carnefici».
Lei scrive che Berlusconi non è affatto finito.
«Tutt’altro. Ha ancora un vasto consenso, nel Paese e nel suo partito».
A differenza di Alfano, però, lei si era contrapposto frontalmente al Cavaliere.
«È vero che le situazioni sono diverse. Ma anche nel discorso che feci alla direzione del Pdl, il giorno in cui affrontai Berlusconi dicendogli “che fai, mi cacci?”, riconobbi che il leader era lui. Allora emerse il mio grande errore. Ero convinto che si potesse costruire con Berlusconi un partito vero, in cui linee diverse vengono messe ai voti. Ma l’unica volta in cui nel Pdl si è votato davvero, è stato per decretare la mia incompatibilità».
Pensavamo che lei avesse accettato il partito unico perché i colonnelli obbedivano già a Berlusconi.
«Non è questo il motivo. Il Pdl era la risposta del centrodestra alla nascita del Pd, guidato da Veltroni, che era al culmine della sua popolarità. Certo, mi ha fatto soffrire molto il fatto che nessuno dei colonnelli mi abbia difeso».
Di Gasparri lei racconta che, quando dovette lasciare il ministero delle Telecomunicazioni, la attese per ore in anticamera e la «supplicò» di perdonarlo, dicendosi pentito. Di Andrea Ronchi scrive che «persino» lui divenne ministro… .
«Be’, in 250 pagine un paio di cattiverie ci sono».
Di La Russa lei ricorda che non osò riferirgli la richiesta di Berlusconi: tagliare il pizzetto.
«Ricordo anche il dolore che mi diede, quando si piegò al diktat sulla mia espulsione. Da Gasparri non mi aspettavo nulla. Di Matteoli sapevo che era sempre stato “filogovernativo”, in sintonia con la leadership del momento. Alemanno non batté ciglio. Il silenzio di Giorgia Meloni mi confermò che si può essere giovani all’anagrafe ma prudenti e tattici come Matusalemme. Da La Russa però mi aspettavo di più. Per carità, era stato esplicito nel suo dissenso. Ma, insomma, eravamo amici da trent’anni…».
Riscriverebbe la legge Bossi-Fini? Che effetto le fa vedere il suo nome affiancato a quello del fondatore della Lega?
«Sento molte inesattezze frutto di superficialità. Il reato di immigrazione clandestina fu introdotto nel 2009. La Bossi-Fini è del 2002. All’epoca innovò la Turco-Napolitano, conservando più di quello che tolse. Oggi può essere ammodernata, ma credo che l’impianto resti valido, a cominciare dal principio fondamentale: a parte gli studenti, ha diritto al permesso di soggiorno l’immigrato che lavora e ha un reddito».
Per Bossi nel libro lei ha parole quasi affettuose.
«La pensavamo diversamente su quasi tutto, ma mi era diventato simpatico. Mi faceva ragionamenti che duravano mezz’ora: partiva dalla guerra dei Trent’anni e arrivava a disegnare un futuro apocalittico; e guai a interromperlo. Un giorno gli chiesi perché aveva fatto cadere Berlusconi nel ’94. Quella volta parlò per un’ora».
In sintesi, quale spiegazione diede?
«Che Berlusconi lo voleva fregare, ma non ci avrebbe più provato. Va detto che tra Bossi e Berlusconi c’era una sintonia umana fortissima, che andava ben oltre le cene del lunedì ad Arcore. Il populismo. La diffidenza verso lo Stato».
Lei però scrive che il Cavaliere aveva una malcelata ammirazione per i politici di professione.
«È così. In pubblico ci attaccava, ma in privato era attentissimo a quel che dicevamo Casini e io. Tra i suoi, a parte Gianni Letta e Confalonieri, i più ascoltati sono sempre stati Cicchitto e Pisanu. Berlusconi è un uomo molto intelligente: sa che la politica non si improvvisa».
Lei nomina la Santanché una volta sola, per dire che si muove «nel disperato tentativo di farsi notare».
«Perché, non è così? Vada a rivedersi le cose orribili che la signora Pitonessa diceva di Berlusconi, quando faceva la candidata premier di Storace. Io non ho mai usato la sua vita privata contro di lui. E avrei potuto farlo, ogni volta che i giornalisti stranieri mi sollecitavano».
Per Storace invece ha parole di simpatia.
«Rispetto il dissenso, quando è leale. Anche se in Israele io non definii il fascismo “il male assoluto”. Lo dissi a proposito della persecuzione degli ebrei, di cui il fascismo fu corresponsabile».
Perché allora non chiarì questo punto?
«Perché qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata interpretata come una retromarcia».
Come spiega la delusione elettorale del centro di Monti e il disastro di Futuro e Libertà?
«Monti è stato un buon premier e un pessimo candidato premier. La nostra alleanza con lui è apparsa un’operazione di Palazzo. Di una sola cosa vado fiero: il rifiuto di candidarmi al Senato. Era mio dovere guidare le liste alla Camera, anche a rischio di non essere eletto».
C’è un futuro per il centro?
«Non credo. Dal Pd, guidato da due cattolici come Renzi e Letta, non vedo smottamenti in arrivo. E poi il bipolarismo ha messo radici nel Paese. Se c’è un terzo polo, è Grillo».
Com’è stata la sua vita in questi mesi? Quanto le manca la politica?
«La qualità della vita è migliorata. Ma quarant’anni di politica non si dimenticano. Non voglio smettere: la farò in modo diverso. Una stagione si è chiusa».
I colonnelli che vogliono rifondare la destra la verranno a cercare. Cosa risponderà?
«Che darò un contributo di idee attraverso la mia nuova fondazione, “Liberadestra”. Dobbiamo ripartire dal programma, non dall’identità. In Italia, come abbiamo sperimentato, la “destra repubblicana” della legalità e della responsabilità è debole. Ma non dobbiamo smettere di pensare a come vogliamo l’Italia tra dieci anni. Dobbiamo offrire un progetto al Paese; che è stata poi la mia vera ambizione in tutto questo tempo».
Aldo Cazzullo