Alberto Crespi, L’Unità 21/10/2013, 21 ottobre 2013
SENTIERI MOLTO SELVAGGI
NEL TEXAS, QUANDO C’È LA LUNA PIENA, ANCORA OGGI MOLTI LA CHIAMANO THE COMANCHE MOON, LA «LUNA COMANCHE». Non è una definizione romantica. Al contrario: richiama alla memoria ricordi terribili, una paura ancestrale che popola ancora la mente degli eredi di coloro che colonizzarono la parte occidentale dello stato nella prima metà dell’Ottocento. Perché era nelle notti di luna piena che i comanche attaccavano, e quando capitava alla tua comunità non si facevano prigionieri: o si sopravviveva o si moriva, e la morte non veniva subito, perché i comanche erano maestri nell’arte di far morire un uomo lentamente.
Allora la chiamavano, in spagnolo, la Comancheria. Era un territorio ancora non colonizzato che copriva l’Ovest del Texas e ampie aree degli odierni Colorado, New Mexico, Kansas e Oklahoma. Il termine era castigliano perché i primi ad arrivare da quelle parti, e a scontrarsi con una tribù i cui comportamenti erano enigmatici e incomprensibili per i bianchi, erano stati i messicani. Gli scontri furono frequenti e feroci, ma altrettanto intensi si rivelarono gli scambi commerciali che diedero addirittura vita a un neologismo, comancheros (i bianchi che frequentavano la tribù). Quando il Texas visse la sua breve stagione di stato indipendente, e successivamente quando divenne parte degli Stati Uniti, toccò ai coloni di lingua inglese vedersela con loro. Fra tutte le tribù native-americane, la loro storia è la più inquietante e misteriosa perché erano i più inafferrabili e feroci fra gli «indiani». Lo dimostra il fatto che le tribù confinanti con loro li odiavano e li temevano quanto i bianchi, se non di più. E qui comincia l’aspetto interessante della storia.
Mondadori ha appena tradotto, negli Oscar, un libro recente (è uscito negli Usa nel 2010) e che si legge come un romanzo: L’impero della luna d’estate, di S.C. Gwynne (15 euro, 474 pagine). È un libro che racconta la storia dei comanche distruggendo molti luoghi comuni, di segno opposto: per questo, da appassionati dei film western e della storia dell’Ovest americano, ci è sembrata una lettura di eccezionale interesse. Per noi europei, che non abbiamo (a meno di andarcelo consapevolmente a cercare) il «fardello dell’uomo bianco» sulle spalle, i nativi americani sono immersi in una doppia coltre di nebbia. La prima coltre è quella, razzista e colonialista, con cui gli invasori del continente americano hanno raccontato la «conquista». La seconda è quella condizionata dal rimorso e dall’utopia, della «rivalutazione». Prima i grandi western filo-indiani (alcuni anche assai belli, come Piccolo grande uomo) poi la cultura del politicamente corretto hanno cominciato a descriverci i nativi americani come un mondo utopico di pace e di armonia, un perfetto equilibrio sociale ed ecologico distrutto dalla rapacità e dalla violenza dei coloni. Il libro di Gwynne dissipa entrambe queste nebbie, e Manitù sa quanto ce ne sia bisogno. Uno degli aspetti più interessanti – e a noi sconosciuti, perché negarlo? – del libro è la storia dei rapporti fra i comanche e le altre tribù. Per motivi geo-politici (erano, come s’è detto, a strettissimo contatto con i coloni di origine ispanica) i comanche furono una delle prime tribù a conoscere i cavalli e ad integrarli perfettamente nel proprio stile di vita e di combattimento. Divennero così una forza egemone: un vero e proprio: stato imperialista all’interno del complesso sistema delle tribù delle pianure, qualcosa di simile, – con cifre molto più esigue – all’emergere degli unni come forza dominante fra i popoli della steppa, ai tempi dell’Impero Romano. Ridussero altre tribù in schiavitù e praticarono una vera e propria pulizia etnica in alcuni territori con i quali confinavano. Gli apaches, altra tribù che il cinema ha alternativamente demonizzato e celebrato, erano fra le loro vittime: anche loro vivevano in Texas, furono i comanche a spingerli a Ovest, verso New Mexico e Arizona – territori assai meno salubri e ospitali delle fertili pianure texane, ricche di bisonti. I tonkawa, una tribù più piccola, erano i loro nemici giurati: nelle spedizioni dell’esercito Usa contro i comanche i tonkawa erano sempre presenti come scout, e persino i soldati texani – che non erano mammolette – erano stupefatti dal loro comportamento quando catturavano un comanche. La pratica normale era torturarlo, smembrarne il corpo e mangiarlo. Non che i comanche fossero meno brutali. Quando la «luna comanche» saliva sulla prateria, i coloni si facevano il segno della croce, si chiudevano in casa e caricavano i fucili. La tribù viveva di caccia e di furto, ma aveva un gusto particolare per la tortura e criteri tutti suoi per scegliere i bianchi da fare prigionieri: portavano con sé solo i bambini già grandicelli, che potevano essere integrati nella tribù ed erano già relativamente autonomi. Gli altri – neonati e adolescenti, per non parlare degli adulti – venivano uccisi.
LA PRIGIONIERA BIANCA DEL FILM DI JOHN FORD
Naturalmente le rappresaglie dei bianchi, prima dei Texas Rangers poi dell’esercito regolare, erano altrettanto efferate. Nel XIX secolo, il Texas era un posto per stomaci forti. Gwynne racconta questa odissea di scontri e di violenze con un tono quasi miracoloso, che riesce ad essere storicamente oggettivo e al tempo stesso partecipe per tutte le vittime, su entrambi i fronti. E da questo miracolo emerge una storia, «la» storia: quella di Quanah Parker, uno dei capi più importanti della storia comanche, figlio di una prigioniera bianca. Nella sua vicenda si racchiudono tutti i paradossi del West, e il politicamente corretto va a farsi benedire. Cynthia Ann Parker, la madre di Quanah, era stata rapita nel 1836 a circa 10 anni di età (la data di nascita non è sicura). Divenne moglie di un capo e madre di tre figli. Fu «salvata» dai bianchi nel 1860, e riportata nella «civiltà», ma non volle mai riadattarsi all’american way of life e tentò più volte di fuggire per tornare alla tribù. Suo figlio Quanah divenne un grande capo... ma fu lui, dopo la resa, a diventare più bianco dei bianchi, avviando attività di imprenditore e trattando astutamente con le autorità politiche del Texas per il bene della sua gente.
Con mille varianti, la storia di Cynthia Ann è narrata in Sentieri selvaggi, il capolavoro di John Ford. È l’unico film che Gwynne cita, con grande rispetto. Dopo aver letto L’impero della luna d’estate, si capisce che Sentieri selvaggi è quasi un documentario, altro che un western spettacolare o «razzista». La violenza ossessiva descritta in quel film era la vita quotidiana nel Texas di metà Ottocento. Ford aveva capito molte cose, sia dei comanche che Sei texani. Ora infiliamo il dvd di Sentieri selvaggi nei lettore, sarà come vederlo per la prima volta.