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 2013  ottobre 21 Lunedì calendario

RITORNO A FORT ALAMO


SAN ANTONIO, TEXAS FA FREDDO, alle nove del mattino, c’è ancora un velo di nebbia a coprire il profilo di Alamo nella parte bassa di San Antonio: la fortezza dove un piccolo gruppo di "valorosi eroi", come recita la scritta, agli ordini del colonnello William Barret Travis si oppose a migliaia di messicani diventando così il simbolo della lotta per la libertà del Texas. L’appuntamentoè ancora qui, per un’altra battaglia: il diritto di possedere, indossare, usare le armi. Ma quella che va in scena all’ombra di queste mura screpolate non è la solita manifestazione organizzata dalla lobby delle pistole, è l’elettrocardiogramma del cuore nero dell’America, il battito impazzito che ha spinto in queste settimane il Paese (e il mondo) sull’orlo di un nuovo baratro economico.

Dietro l’impulso quasi autolesionista, secondo la definizione del Washington Post, che ha portato il Tea Party sulle barricate del default ci sono questi uomini e queste donne.

Sono in piedi da ore, molti non hanno dormito per arrivare in tempo: «Dopo tutto quello cheè successo in questi giorni al Congressoè chiaro che siamo in un momento decisivo per la nostra società, non potevo mancare»: Larry viene da Dallas, ha 65 anni, indossa un cappello da baseball, un giubbino azzurro e tra le mani tiene un cartello con scritto: " Not Obamacare ". Lui non porta armi: «Non mi sono mai piaciute ma difendo il diritto sacrosanto di averle, sono contro ogni divieto.

Sono qui per dire no alle cose assurde che fa questo presidente».

Alle dieci la piazzaè già piena. Ci sono oltre mille persone, sventolano le bandiere americane, quelle del Texas con lo slogan " Dont’ tread on me ", non calpestarmi, poi quelle della Confederazione degli Stati del Sud. Ci sono i veterani di tutte le guerre, dal Vietnam all’Iraq, all’Afghanistan, c’è anche un anziano in sedia a rotelle che ha combattuto nel Pacifico. Lo accompagna il nipote: «Voleva esserci a tutti i costi. Dice che lui ha lottato per un paese diverso».

Bomber verde, occhi sottili azzurri, sul palco parla C. J. Grisham, uno degli organizzatori: «Non siamo bifolchi, siamo ufficiali dell’esercito, avvocati, medici. Andiamo all’università, ci piace il cinema e leggiamo libri come tutti gli altri.

Crediamo in una società armata e gentile, crediamo che le armi difendano la libertàe ci garantiscano la sicurezza». May è scatenata, ha 77 anni e i capelli candidi perfettamente pettinati, viene da Orlando in Florida. Mostra orgogliosa la tessera del poligono dove è iscritta: «I giornalisti ci chiamano fascisti ma nonè così. Guarda quei cartelli, dicono il vero», quasi grida alzando il dito verso due scritte poco lontano. Mussolini: sequestrate più armi possibili. Hitler: per conquistare un popolo toglietegli le armi.

Inutile provarea contestualizzare, l’energia di May è incontenibile: «I messicani promisero ai texani: dateci i vostri fucili, a voi penseremo noi. Ma loro, grazie al cielo, morirono pur di non ubbidire».

Agenti di polizia in bicicletta se ne stanno ai confini della spianata. In teoria tutto questo sarebbe illegale persino nell’ultra liberale San Antonio. Esiste infatti una legge cittadina che vieta l’esposizione di armi da fuoco, ad agosto quattro attivisti sono stati arrestati per comportamento molesto in uno Starbucks. Nei giorni scorsi non sono mancate le polemiche, adesso il capo degli agenti, William McManus, è qui a garanzia che tutto andrà bene: «Non siamo noi contro di loro. Abbiamo tutti interesse che non accada niente».

Il soleè alto. Le armi luccicanoa tracolla e tra le mani di chi le alza verso il cielo: sono ovunque. Le portano uomini che sembrano cacciatori scesi dalle montagne o incursori delle truppe speciali, ma la stragrande maggioranza è il vicino della porta accanto, vestito come se dovesse andare al parcoo allo stadio. Ci sono molte donne con abiti leggeri, ancora estivi, tirati sui fianchi da pesanti cinturoni. Parecchi bambini, anche loro armati. Jack ha un lungo fucile di precisione sulla spalla, in braccio la piccola Jennifer di due anni che si succhia il dito tranquilla: «È abituata, non ci trovo niente di strano», spiega lui.

Vengono montati i banchetti per le petizioni. Quello con la fila più lungaè per l’indipendenza del Texas, che da queste parti è qualcosa più di un sogno: ci sperano in molti. Poi c’è quello per il diritto di girare armati, quello contro la riforma della sanità e quello contro la nuova legge sull’immigrazione. Al microfono ora c’è Mark: «Sono nato in Africa e sono venuto qui tanti anni fa. Sono entrato legalmente, non alla maniera di Obama», in pochi minuti di intervento lo ripete almeno cinque volte: «Non alla maniera di Obama»e la gente applaude sempre più forte, urla: come se in quella frase ci fosse racchiusa l’essenza stessa di questa giornata.

Ci sono i sostenitori del senatore Ted Cruz, il texano anima della protesta Tea Party: alzano cartelli con il suo nome, indossano tshirts con la scritta: «Io sono con lui». Li guida Andrew che si affanna tra i microfoni delle tv: «Non ha sbagliato niente, è stato tradito dai suoi stessi compagni di partito. Ma abbiamo perso una battaglia, non la guerra e adesso lui troverà il modo per riprendere la lotta e far vincere le nostre idee. Altrimenti il socialismo di stato ci manderà in rovina». Cruz, nello stesso momento, sta in un hotel dall’altra parte della città, si gode gli applausi dei sostenitori e scherza: «Dopo mesi a Washington è bello tornare in America».

La spinta estremista non ha freni, la maledizione dei conservatoriè quella di doversi coprire di continuo il fianco destro. Mentre Andrew racconta le ragioni del suo senatore preferito, sul palco parla Kathie Glass che si è appena candidata al ruolo di governatore del Texas come indipendente: «Il Congresso è a pezzi, i due partiti sono alla deriva. In questo momento c’è bisogno di leader e io non vedo in giro gente adatta a fare il capo: dobbiamo riprendere in mano la politica e lottare per i nostri diritti». Il suo programma è una lista di no: no a regolarizzare gli immigrati, no alla riforma della Sanità, no alle tasse federali, no all’aborto. E un solo grande sì: sì alla libertà dei cittadini.

Brandon annuisce. Ha una cinquantina d’anni, viene da Austine indossa una t-shirt nera con un’inquietante Obama joker circondato dalla scritta Tiranno: «Guarda che non sono razzista, so che lo stai pensando. Ma è troppo comoda liquidarci così. Io sono americano, credo nei valori della nostra storia e mi opporrò a tutti quelli che li calpestano: bianchi o neri, presidenti o non presidenti». È il momento finale della manifestazione, si annunciano i vincitori della riffa: al più fortunato va un AR155, un potente fucile mitragliatore, gli altri si devono accontentare di pistole semiautomatiche. Sono quasi le tre, prima dei saluti, c’è il tempo per un mini corteo lungo Houston Street, si va al parco dedicato al colonnello Travis peri saluti sotto il monumento che lo ricorda. Il serpentone di uomini armati si muove lento lungo la strada dello shopping, qualche turista ha un soprassalto di paura: «Che succede?». Gli slogan sono ripetuti all’infinito: libertà, libertà, una pistola per tutti.E poi c’è sempre qualcuno che urla:« Fuck Obama». C. J. Grisham sorride soddisfatto: «È andata meglio del previsto, non mi sarei mai aspettato così tanta gente. L’America adesso ci deve ascoltare».

Alla sera, alcune ore dopo, Larry sta seduto con gli amici ai tavoli di Josephine Street Caffè, una delle più antiche bisteccherie di San Antonio. I fucili sono appoggiati per terra: «Non ci fidiamo a lasciarli in auto, abbiamo chiesto al proprietario e ci ha detto che potevamo portarli dentro». La birra gli impasta le parole, l’energia scivola via, c’è come un velo di tristezza: «Non odio Obama, ho persino votato democratico qualche volta. Ma vedo che i miei figli non hanno lavoro, che le banche mi ricattano, che va tutto alla rovinae allora mi dico che bisogna cambiare le cose, che dobbiamo recuperare l’anima che ha fatto grande questo paese». La tavolata alza i bicchieri: « God Bless America, God Bless Texas ».