Sergio Rizzo, Corriere della Sera 21/10/2013, 21 ottobre 2013
IL SOGNO DI ABBATTERE IL DEBITO DELLO STATO
Nel centro del centro di Roma c’era una volta un ospedale. San Giacomo, si chiamava. Finché un bel giorno il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, decise di chiuderlo. Apriti cielo!
Chi protestava che il centro storico della Capitale veniva privato del pronto soccorso. Chi sosteneva che si voleva infliggere un colpo mortale alla sanità pubblica. Chi sospettava una manovra per favorire la speculazione edilizia… Risultato: che da cinque anni il San Giacomo, uno stabile enorme fra via di Ripetta e via del Corso, è vuoto. E Dio solo sa quanto costa alla Regione per evitare che cada a pezzi. Perché un tale patrimonio non viene riutilizzato? Vi spiegheranno che la faccenda è complicata. L’immobile è vincolato e poi c’è la questione sollevata da Olivia Salviati, discendente del cardinale Antonio Maria Salviati che al tempo lo regalò allo Stato pontificio: sostiene che fu donato esplicitamente per usi benefici e non può essere impiegato che per quelli. Insomma, se qualcuno ha pensato di trasformarlo in uffici, o peggio ancora di metterci un albergo, se lo può scordare. Anche se in questi frangenti far risparmiare qualche euro alla collettività, diciamo la verità, può ben essere considerata un’opera benefica. E pazienza se l’ultimo Papa Re è sceso dal trono un secolo e mezzo fa e l’ospedale è finito in proprietà prima al Regno d’Italia e successivamente alla Regione Lazio. Il fatto è che per cinque lunghi anni nessuno si è occupato di risolvere la faccenda.
Quale sia il motivo, se le inerzie burocratiche o altro, poco importa. La storia del San Giacomo spiega bene quanto sia complicato in Italia gestire l’immenso patrimonio pubblico senza rimetterci l’osso del collo. Alla fine degli anni Novanta una commissione guidata dall’ex ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese lo valutò in una somma equivalente a oltre 700 miliardi di euro attuali. Stime successive hanno calcolato per i beni pubblici effettivamente cedibili un valore compreso fra 300 e 400 miliardi. Eppure, mentre la rendita di un patrimonio tanto imponente è inesistente, lo Stato e le amministrazioni pubbliche locali spendono 12 miliardi l’anno per affittare locali dai privati. Un’analisi svolta dal gruppo di lavoro di Pietro Giarda ha appurato che soltanto la polizia e i carabinieri sopportano per canoni passivi un esborso superiore a 600 milioni l’anno.
Ecco perché, dopo averle pensate tutte, il ministero dell’Economia si è risolto a giocare l’ultima carta, quella del fondo dei fondi. Qualche mese fa ha costituito una Sgr, Società di gestione del risparmio, battezzata Invimit, e l’ha affidata all’ex direttrice dell’Agenzia del Demanio Elisabetta Spitz con il ruolo di amministratore delegato, affiancata da una vecchia conoscenza del ministero con l’incarico di presidente: Vincenzo Fortunato, per dodici anni consecutivi capo di gabinetto del Tesoro di Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Mario Monti e Vittorio Grilli con un breve intermezzo biennale alle Infrastrutture di Antonio Di Pietro.
Obiettivo, far risparmiare un po’ di soldi ai contribuenti e magari dare un colpettino al nostro immenso debito pubblico. In che modo? Gestendo direttamente, o anche attraverso altre Sgr (magari private) una serie di fondi immobiliari nei quali lo Stato, o magari le Regioni e gli enti locali, riversano pezzi del loro patrimonio perché venga o valorizzato oppure ceduto.
Un esempio? Le scuole. Ce ne sono tante non più utilizzate mentre mancano i soldi per riparare il tetto o mettere a norma gli impianti delle altre o costruirne di nuove e più moderne. La Provincia X potrebbe allora costituire un fondo immobiliare al quale apportare tutti gli edifici scolastici: quelli non più usati verrebbero riconvertiti, affittati ai privati come uffici o venduti, e con il ricavato si realizzerebbero strutture nuove. Tutto semplice, sulla carta: salvo poi fare i conti con la solita burocrazia (permessi, cambiamenti di destinazione d’uso…) quando non con le resistenze locali. Scontate.
Il piano d’azione della Invimit, che ha avuto dieci giorni fa il benestare della Banca d’Italia, prevede soprattutto, che la Sgr, oltre a gestire direttamente questi fondi, possa trovare sul mercato soggetti privati disponibili a investirvi. E per soggetti privati s’intende non soltanto italiani. Il piano cita espressamente le casse di previdenza private, le compagnie di assicurazioni ma anche gli investitori finanziari esteri. Le dimensioni cui pensano i responsabili dell’operazione lo giustificherebbero. Lo stesso piano prevede infatti che entro il 2017 i fondi collegati alla Invimit arrivino a contenere immobili pubblici per un controvalore di 6 miliardi e 100 milioni di euro. Quattro miliardi riguarderanno i cosiddetti fondi diretti, ai quali parteciperanno conferendo i propri immobili Inps, la Regione Lazio, l’Unioncamere e l’Inail. La partecipazione di quest’ultimo ente, però, non si limiterà ai mattoni. Siccome per partire serviranno delle risorse liquide, a queste si provvederà proprio attingendo al tesoretto dell’Inail, che ci metterà qualcosa come un miliardo e 800 milioni.
Il primo di questi «fondi diretti» avrà dentro immobili dell’Inps per 1,9 miliardi. Poi toccherà alla Regione Lazio apportare beni per 800 milioni. L’ente governato ora da Nicola Zingaretti ha un patrimonio sterminato. Dell’ex ospedale San Giacomo si è già detto: ma non è l’unico. C’è l’ex nosocomio Santa Maria della Pietà a Monte Mario, come pure l’ex Forlanini. E ci sono poi altri immobili in zone prestigiose, quali il palazzo di via Maria Adelaide occupato dalla associazione Action dell’ex pugile Andrea Alzetta detto «Tarzan» (valore, 28 milioni di euro) o lo stabile in via della Mercede, a due passi dalla Camera dei Deputati, che ospita il teatro Sala Umberto.
Ancora. Fra il 2016 e il 2017 toccherà al patrimonio Inail: 1,4 miliardi. L’elenco degli immobili di pregio nel portafoglio dell’istituto è lunghissimo, a cominciare da un grande palazzo che affaccia su piazza Cavour, a Roma.
Ci sono poi i cosiddetti Fondi dei fondi, per un totale di 1,8 miliardi. Come appunto il Fondo scuole, cui abbiamo già accennato, per il quale sono stati già individuati dei complessi a Bologna e Firenze. E come il Fondo carceri, nel quale confluiranno inizialmente le case circondariali di Venezia e di Catania. Oppure il Fondo Beni pubblica amministrazione che conterrà stabili demaniali da destinare a uffici pubblici.
E a questo punto è d’obbligo dare risposta a una domanda: che cosa ci guadagnerà in concreto lo Stato? Si è parlato di una riduzione del debito pubblico conseguente alle cessioni. Il destino di molti immobili contenuti in quei fondi, come per esempio le carceri senza detenuti o le caserme senza soldati, saranno vendute e il ricavato dovrà abbattere il debito pubblico. Difficile valutare ora il reale impatto di tale capitolo, come non è semplice calcolare di quanto questa iniziativa potrà alleggerire il deficit pubblico. Ma fra gli obiettivi c’è anche questo. Aumentare la redditività del patrimonio di un ente previdenziale, per fare un esempio, avrebbe come conseguenza la corrispondente riduzione dei trasferimenti pubblici. Così come trasferire un ufficio pubblico da un immobile di proprietà privata a un palazzo demaniale farà risparmiare la spesa dell’affitto. Senza poi considerare gli effetti sui costi di manutenzione e delle utenze della riduzione del numero dei contratti di fornitura, già sperimentati recentemente al Consiglio nazionale delle ricerche dove si sono ottenuti risparmi considerevoli.
Ma a guadagnarci saranno anche i privati. Un simile affare prevede non soltanto l’acquisizione di quote di questi fondi da parte di investitori italiani ed esteri, e l’affidamento della loro gestione tramite gara a Sgr terze, ma pure il coinvolgimento di professionisti del ramo immobiliare.
Staremo a vedere se le previsioni contenute nel piano saranno rispettate. Possiamo solo sperare che questa iniziativa segni un effettivo cambiamento di rotta nella gestione del patrimonio pubblico. E che alla parola «valorizzazione» seguano i fatti. Perché non si può dire che i tentativi di mettere a frutto gli immobili pubblici abbiano dato finora risultati particolarmente lusinghieri. Basta pensare al fallimento di operazioni come Patrimonio spa, la società creata dieci anni fa dal Tesoro e affidata a Massimo Ponzellini con la missione di privatizzare le vecchie carceri. Oppure come Metropolis, ideata più di vent’anni fa per valorizzare e cedere gli immobili delle Ferrovie dello Stato. O ripercorrere la storia delle cartolarizzazioni, che avrebbero dovuto contribuire alla sostanziosa riduzione del debito pubblico, attirandosi invece giudizi ingenerosi della Corte dei conti. Per non parlare della sabbia che gli interessi particolari hanno sempre gettato negli ingranaggi ogni volta che c’era in ballo qualche operazione virtuosa sul patrimonio pubblico: fossero le caserme, gli ospedali o perfino i terreni agricoli. Che serva di lezione.