Matt Wilkinson, L’Unità 20/10/2013, 20 ottobre 2013
INTERVISTA A PAUL MCCARTNEY
“Nella vita reale sono nonno. Ho otto nipoti. Insomma sono piuttosto cresciutello. Ma nella vita musicale…non è necessario che sia nonno”. Alla vigilia dell’uscita del 49° album di Sir Paul McCartney - 12 con i Beatles, 23 con i Wings o da solista, cinque dischi classici, tre colonne sonore, tre con i Fireman e tre di difficile attribuzione – si è già parlato molto delle presunte intenzioni dell’ultimo album. New è stato realizzato con quattro diversi produttori. Tutti e quattro si sono fatti un nome dopo il 2000 - Mark Ronson, Rthan Johns, Paul Epworth e Giles Martin (figlio di George, produttore dei Beatles) - e hanno parlato di come Macca (NdT, In alcuni paesi di tradizione anglosassone è il nomignolo di quanti hanno il cognome che inizia con “Mac” o “Mc”) abbia suonato un po’ alla Frank Ocean, un po’ come il gruppo psichedelico Tame Impala e un po’ alla How to dress well dietro cui si nasconde Tom Krell. La settimana prima di incontrare McCartney ho parlato con ciascuno di loro perché volevo sapere quale era l’obiettivo di Paul McCartney a cinquanta anni dal primo album dei Beatles. Mi hanno dato tutti la stessa risposta: “non penso che Paul voglia crescere”. “Sì. è proprio vero. Potrei fare il nonno”, fingendo ad arte una voce tremolante e da vecchietto. “Nonno…nonno…. Capite cosa intendo dire? Mentalmente non sento di avere l’età che ho anagraficamente. E’ uno shock, non vi pare?”.
In realtà non direi, perché nulla è cambiato: in Revolution in the head, il libro del 1994 sul ruolo di Paul nei Beatles, lo scomparso Ian McDonald scriveva: “Per McCartney la band rappresentava un mondo immaginario nel quale poteva rimanere sempre giovane”. “La musica ti rende libero di spirito”, dice oggi Paul. “Ed è proprio questa libertà che non voglio perdere. Non mi dispiace crescere anche perché se sei fortunato diventi anche un po’ più furbo”.
Paul si presenta all’intervista con l’aria di chi ha appena timbrato il cartellino alla fine di una giornata di lavoro. Giunge in auto e parcheggia proprio dinanzi alla cucina del piccolo villino nel quale lo sto aspettando. La porta sbatte, la ghiaia scricchiola e poi il fischio familiare, l’inconfondibile marchio di fabbrica di Macca che lo precede prima che Paul entri nella stanza. Ci troviamo nello splendido studio dal nome suggestivo di Hog Hill Mill, nella campagna del Sussex. Nella cucina ci sono non solo un mulino a vento perfettamente funzionante, ma anche una sala di registrazione piena delle apparecchiature ammassate da Paul negli ultimi 50 anni.
Ci siamo appena salutati che appare subito evidente che a Paul interessa più quello che accade in cucina che nello studio di registrazione. Cosa hai imparato di prelibatezze culinarie in 50 anni di tour in ogni parte del mondo? Apparentemente che il migliore hummus lo fanno da Panzers, a Londra nord. “Ho provato quello libanese. Non male”, dice. “Ho provato quello fatto in Grecia. Ma non è la stessa cosa. Mi faccio arrivare lo hummus, la crema di Marmite e i bagel con i semi da Panzers. Ne vuoi assaggiare uno?”. Dovreste aver già ascoltato il singolo di New prodotto da Mark Ronson dopo che aveva avuto un saggio della bravura di Paul come DJ al ricevimento in occasione del suo terzo matrimonio con Nancy Shevell nel 2011. Paul e Mark si sono conosciuti quando Ronson era un ragazzino – il suo patrigno è Mick Jones, chitarrista dei Foreigner – e Paul gli salvò la vita una volta che stava per annegare. “Veramente non me lo ricordo, ma mia madre giura che è vero”, dice Ronson ridendo al telefono.
Non di meno quando i due sono entrati in studio per la prima volta nel gennaio del 2013, Ronson dice che tremava dalla paura. “Ero un fascio di nervi. Il primo giorno dopo due ore di lavoro con il più grande compositore vivente della storia del rock, avevo in testa un solo pensiero ‘dobbiamo incidere un pezzo; cerchiamo di non incasinare tutto’”. Sorprendono in Paul la sua ambizione e, ancor più, la sua insicurezza. Ricorda i Rolling Stones, gli eterni rivali. Sa che sono tornati in pista perché anche loro vogliono il loro pezzo di gloria. Paul è convinto che i suoi spettacoli siano migliori di quelli di Beyoncé. E mentre parliamo trova il tempo per crucciarsi del fatto che i suoi nipotini trovano il suo nome sui libri di storia . Le sue nuove canzoni gli servono a correggere qualche falso mito sul ruolo da lui avuto all’epoca dei Beatles e aggiunge che è un po’ spaventato al pensiero di accettare il suggerimento di sua figlia, la stilista di moda Stella, di collaborare con Thom Yorke. Teme che Thom non abbia alcuna voglia di lavorare con lui. Comunque sia, al momento tutti pensano che con New, Paul McCartney abbia superato la prova.
La canzone che dà il titolo all’album, prodotta da Ronson, è un efficace mix di tastiere, ottoni e chitarre ed è la cosa più fresca di Paul da molti anni a questa parte. Altrettanto piacevole l’allegra Alligator. Le parole sembrano davvero quelle di uno molto incavolato e ci danno la possibilità – da cogliere al volo – di dare uno sguardo nell’animo di un uomo che nella vita ne ha passate davvero tante. “I want someone who can bail me/ When I get up to my tricks”, canta Paul. In Scared si scorge il suo lato vulnerabile che fa pensare al Johnny Cash degli ultimi anni di vita. Everybody Out There è il pezzo forte dell’album. Il pezzo, costruito per piacere a tutti coloro che andavano pazzi per la musica dei Wings nel loro periodo migliore (Jet, Band on the run, Live and let die), comincia con un assolo di chitarra uscito direttamente dai fasti 1965 e che si avvale del coro alla anni ’70 della famiglia McCartney. “Il solo modo per non farli scorrazzare dappertutto era di farli venire nella sala di registrazione”, dice Giles Martin, produttore del brano. “E’ un pezzo nato per essere suonato live” dice Paul con malcelato orgoglio. E a proposito di concerti, l’ultimo che gli è piaciuto è stato quello di Kanye West e Jay Z dell’anno passato alla O2 Arena. “E’ stato quel giorno che sono riuscito veramente ad entrare in sintonia con il rap”, spiega Paul. “Fino ad allora avevo apprezzato principalmente l’aspetto hip-hop del rap. Ma in quel concerto ho capito l’importanza di un altro elemento, quello della poesia urbana”, sottolinea Paul con dolcezza. “Come Bob Dylan, Jay Z e Kanye sono poeti”.
Comunque in questa nuova fase della sua carriera musicale cerca quello che ha sempre cercato: un “mood” che non sposa nessuna formula e piace alla gente. “In America ai Beatles in genere domandavano ‘chi scrive le parole e chi la musica?’ E noi rispondevamo: ’Tutti facciamo tutto’. ’E quale è la vostra formula per il successo?’. E noi replicavamo: ‘Se ne avessimo una la nasconderemmo in una bottiglia, ma probabilmente romperemmo la bottiglia e perderemmo la formula magica’. La realtà è che non voglio mai scoprire cosa sto facendo”. È proprio questo ancora oggi lo spinge. È per questa ragione che chiama a raccolta Ronson, Epworth e compagnia bella, va ai concerti rap e esce con un album come New. Consiste proprio in questo la sua libertà di spirito.
Durante tutta l’ora di conversazione – punteggiata dalle riflessioni di Paul sulle sue fonti di ispirazione, sui grandi della musica di oggi, sulla morte e, ovviamente, sui Beatles – il più grande compositore di musica della storia della cultura popolare, sembra completamente diverso da qualsiasi altro settantunenne che mi sia mai capitato di conoscere.
E’ insolito che uno della tua età vada al concerto di Jay Z e Kanye.
E’ vero, ma io sono un musicista. Mi appresto a fare un tour e mi interessa sapere quello che stanno facendo gli altri. Non mi piacerebbe partire con il mio tour per poi accorgermi che sono superato, passato di moda. Se la gente dice che Beyoncé è una bomba, a me viene subito voglia di andarla a sentire magari per dire a me stesso ‘ok, brava, ma possiamo fare di meglio’”.
Sono in splendida forma altri tuoi contemporanei degli anni ’60 quali Bowie, i Rolling Stones, Neil Young…
Bè, a dire il vero qualcuno è morto. Però è vero, capisco perfettamente cosa intendi dire.
C’è rivalità?
Sì, vogliono seguire le mie orme. Io non ho mai smesso di andare in tour. In fondo è la cosa che sappiamo fare meglio. Abbiamo esperienza e un ricchissimo bagaglio musicale. Quindi è del tutto naturale che anche i Rolling Stones si rimettano in gioco.
Li hai visti di recente?
Sì. Sono una grandissima band. Li ho sempre seguiti, sono andato sempre ai loro concerti. Li ho visti al Barclays Center di New York subito dopo l’esibizione alla O2 Arena. Sono stati bravi. Hanno suonato bene. Keith e Ronnie hanno suonato benissimo.
E Bowie? Era rimasto lontano dalla scene così a lungo….
Mmmmm. Un evento di portata nazionale.
Come puoi rivaleggiare con lui senza prima sparire per dieci anni?
E’ il solo modo per creare così tanta attesa. L’altro modo è morire. Due alternative che non mi piacciono. Come sai sono molto felice. Si parla abbastanza di me. Non mi preoccupo di avere più visibilità o più pubblicità. Il solo modo che mi viene in mente è quello di andare a suonare per un po’ in America Latina, stare alla larga per qualche tempo e poi tornare in Gran Bretagna così la gente dice ‘oh, è un pezzo che non lo vedevamo’”.
Nel pezzo Early Days dell’album New sembra che tu voglia fare i conti con tutti quelli che hanno creato il luogo comune secondo cui dei quattro Beatles eri quello “soft”. “Sembra che tutti abbiano un parere/ Su chi ha fatto questo e chi quello/ Non riesco a capire come se lo possono ricordare/ Visto che non c’erano nemmeno”. E’ un tuo cruccio?
Sì, hai ragione. E’ una cosa che mi secca, ma non mi ossessiona. Comunque accade. La storia dei Beatles si studia a scuola. I miei nipoti mi dicono: ‘Nonno oggi abbiamo letto il tuo nome sul libro di storia’. ‘Davvero? Oh no, che vergogna!’. In fondo vorrei solo che i miei nipoti sapessero come stanno veramente le cose. Per quanto mi riguarda, quando sento certe opinioni, mi limito a replicare: ‘Come fate a dire una cosa del genere? Su cosa è fondata?’. Non c’erano. Non sanno nulla. Non erano nella stessa stanza con me e John. Non hanno la minima idea di quello che ci dicevamo. Hanno sentito delle storie, ma la verità è molto più sfuggente e inafferrabile. Se ora John fosse qui non mi direbbe: ‘Coraggio Paul, butta giù un motivetto…stronzo che non sei altro’. E in questo film immaginario io dovrei rispondere: ‘oh, John, che ne dici di questo: la, la la…’”.
Ovviamente ti infastidisce abbastanza da farti desiderare di ristabilire la verità.
Credo ne valga la pena. Ricordo di aver conosciuto quelli che hanno fatto il film The Buddy Holly Story. Io ero un fan di Buddy Holly. The Crickets, la sua band, mi dissero che non comparivano nemmeno nel film. Sono cose del genere che ti danno da pensare. Sam Taylor-Wood mi fece leggere il copione di Nowhere boy. ‘Questo non è mai accaduto’, le dissi ad un certo punto. Due cose mi mandarono in bestia di quel film. John era più alto di me, il che non è vero. Ero alto esattamente quanto lui. Perché hanno voluto farmi fare la parte del piccoletto? Thomas Brodie-Sangster, che interpretava il mio ruolo, era un bravissimo attore, ma avrebbero dovuto farlo recitare su una pedana. L’altra cosa è che John nel film mi manda KO con un pugno. Una cosa del genere non è mai accaduta. Non credi che me ne ricorderei? Una cosa che non è mai successa, ora ha finito per diventare la verità ufficiale. In spite of all the danger (Ndr, scritta da McCartney e George Harrison quando il gruppo, prima dei Beatles, si chiamava The Quarrymen) nel film viene spacciata per una canzone scritta da John per la madre con tutti i risvolti psicologici che la cosa comportava. E’ una canzone che abbiamo scritto e basta. Poteva essere anche dedicata a mia madre – entrambi abbiamo perso la madre da giovani. Ma nel film ‘è John che tormentato e addolorato scrive una canzone per la madre che non c’è più’. Presi da parte Sam e le dissi: ‘qui non c’è nulla di vero’. ‘E’ un film, non un documentario’, mi rispose. ‘Non è una biografia. E’ fiction’. Ovviamente John è una leggenda più di chiunque altro di noi a causa della sua tragica fine. Ovviamente è stato un grande. Non puoi diventare una leggenda se non sei stato un grande, ma nel film gli attribuiscono un ruolo guida che nella realtà non ha mai avuto. I rapporti tra noi erano molto più equilibrati. I versi che hai citato hanno esattamente questo scopo: rimettere le cose a posto. Il punto è: loro non c’erano e allora come fanno a dire certe cose?
Praticamente ogni giorno ti fanno qualche domanda sulla morte di John e George. E’ un tema, al tempo stesso, morboso e triste. Ti avvilisce?
No, non mi butta giù. In un certo senso è una cosa positiva perché me li fa sentire sempre presenti. John per me è una presenza esattamente come lo era quando era vivo e non vivevamo continuamente a contatto di gomito. E’ una cosa positiva. La cosa terribile, naturalmente, è quando si parla del suo assassino a New York. Questa è una cosa che non smette mai di colpirmi e intristirmi. Ma in genere non si parla di questo. E in ogni caso me la cavo con una frase, poi passo ad altro, cambio discorso e mi metto a parlare di quanto era matto John. Mi fa sempre piacere quando mi ricordano John.
Se entrasse qui ora cosa gli diresti?
Scriviamo una canzone, amico. Forza, tira fuori la chitarra!
E cosa direbbero i Beatles se avessero 20 anni nel 2013?
Questa è una domanda interessante. Credo basti riandare a quanto abbiamo fatto in passato. Abbiamo cercato di rivaleggiare con la musica che arrivava dall’America – Buddy Holly, il rock’n’roll, Elvis, gli Everly Brothers e tutto il resto. Imitavamo la voce di Buddy Holly e la chitarra degli Everly Brothers. Adoravamo i loro accordi. Io e John pensavamo di essere Don e Phil.
I loro sono gli accordi più belli di sempre..
Proprio così! Erano fantastici! Per rispondere alla tua domanda, credo che anche oggi ci guarderemmo intorno per capire dove sta accadendo nel mondo della musica. Certo non ci rifaremmo alla roba di Katy Perry perché non sarebbe facile identificarci in lei. Anzitutto è una donna e anche carina e poi musicalmente non ci interesserebbe. Credo invece che ci faremmo ispirare da Kings of Leon, Dylan, Neil Young. Credo che faremmo musica di quel genere.
Quindi niente elettronica?
Penso proprio di sì. Saremmo ancora dei ragazzi che fanno musica. Non credo che faremmo troppo ricorso all’elettronica. Staremmo dalla parte di quelli che ancora oggi suonano davvero.
Ti riesce difficile scrivere canzoni?
(semi-offeso) Eh sì!
Davvero?
Sì, un po’. Ma solo perché ho scritto così tanta musica. Dopo aver scritto 5.000 brani devi provare a fare qualcosa di nuovo. Come si può essere diversi? Io seguo l’intuito.
Hai scritto moltissime canzoni. Ascoltando un pezzo raro, ma stupendo come “Goodbye” che nel 1969 hai scritto per Mary Hopkin, mi chiedo se ti capita di dimenticare alcuni dei tuoi brani meno famosi?
Sì, capita. Ci sono album, quasi tutti degli anni ’70, di cui spesso non ricordo le canzoni.
Veramente?
Eh sì. Era un periodo un tantino confuso. Era subito dopo la fine dei Beatles ed era come se mi domandassi ‘e ora che facciamo?’. Stavo cercando di mettere insieme la band dei Wings. Negli anni seguenti mi è capitato di vedere il titolo di alcuni pezzi di quegli anni e di pensare ‘ma come è questo pezzo? Non me lo ricordo per niente’.
Stai scherzando!?
No! Poi capitava che qualcuno accennasse un motivo di un mio pezzo e allora mi tornava in mente.
Scrivere canzoni lo consideri un lavoro come fanno Nick Cave e Jack White? Ti svegli al mattino, ti metti al lavoro alle 10 e vai avanti per sei ore?
Sì ed è una cosa molto bella. Se fai una cosa che ti piace è fantastico lavorare. Ti rinchiudi in te stesso, nel tuo spazio privato e raccogli i tuoi pensieri. Spesso penso sia una terapia.
All’inizio è un processo solitario?
Sì, ma è molto bello. Il resto della mia giornata è tutt’altro che solitario. Rilascio interviste come in questo momento, accompagno mia figlia a scuola o faccio qualche ripresa. Sono sempre in compagnia di un sacco di gente. A volte mi chiudo in un bagno con una buona acustica portandomi dietro solo la chitarra. E’ come rifugiarmi nel piccolo mondo dei miei pensieri.
Direi che oggi l’equivalente di McCartney sono persone come Thom Yorke o Damon Albarn, gente che passa la giornata negli studi di registrazione. Hai mai pensato di lavorare con loro?
Di lavorare con Thom o Damon? Bè, ci penso eccome! Mia figlia Stella ha un progetto e non fa che ripetermi ‘telefona a Thom; andate in sala di registrazione insieme e vedete un po’ cosa ne esce’.
Devi farlo!
Già. Sono un po’… non saprei come dire… Sono un po’ paranoico all’idea di prendere il telefono, chiamare Thom e dirgli ‘ehi Thom, sono Paul. Che stai facendo? Che ne diresti di scrivere qualcosa insieme?’ E se poi mi rispondesse che ha da fare?
Mi sembra improbabile.
Un paio di anni fa circolavano un mucchio di voci su una collaborazione tra me e Bob Dylan e quella faccenda mi è rimasta impressa nella mente. Mi sarebbe piaciuto. Ma in materia di collaboratori sono un po’ viziato visto che ho avuto la fortuna di collaborare con John. Sarebbe irrealistico pensare che io possa mai trovare un collaboratore migliore di lui.
Chuck Berry suona ancora regolarmente a 86 anni. Una volta hai detto che canteresti “Yesterday” anche su una sedia a rotelle. Oggi ne sei ancora sicuro?
“Con questo album e con il relativo tour faremo un passettino avanti. E quando avrò fatto questo passettino mi guarderò intorno e vedrò che aria tira. Se trovo il trampolino adatto non è escluso che faccia un bel tuffo carpiato all’indietro. Ma è una cosa che deciderò al momento giusto. Se mi chiedi una previsione di lungo periodo, mi viene naturale risponderti che farò sempre quello che sto facendo ora. Ma, come per un calciatore, arriverà il momento in cui non ce la farò più”.
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Al momento McCartney lavora quanto non ha mai lavorato, ma ammette che le cose potrebbero cambiare. “Aspetto di essere rottamato, ma finora non è successo. Non ci penso. Vedo gente più giovane di me che passa la giornata seduta davanti al televisore a guardare “Jeremy Kyle” (NdT, conduttore televisivo che ha uno show molto popolare in Gran Bretagna). Magari non sono nemmeno certo che questa è la vita che vorrei. Chi può dirlo? Ma mi piace e spero che continui così. Tocchiamo ferro, ma se dovessi essere colpito da una malattia invalidante, allora dovrò inventarmi qualcos’altro. Per il momento sono pieno di energie”. Fa una pausa, poi sottolinea l’ultimo concetto: “Mi piace ancora molto quello che faccio. Mi sento bene”.
L’ora è finita. Paul scende al piano di sotto dove lo attendono in sala di registrazione. Mentre ci salutiamo il suo assistente accende il computer. A cosa lavorerai per il resto del pomeriggio? “Faccio un po’ di esperimenti con il Cubase (NdT, software che consente di creare brani musicali in formati diversi). Mi fa impazzire”. Paul comincia a battere ritmicamente le mani e mi strizza l’occhio: “Sono fortunato a non dover lavorare in un allevamento di maiali”.