Antonio Socci, Libero 20/10/2013, 20 ottobre 2013
CI SONO DUE PAPA FRANCESCO
Giù le mani dal Papa. Bisogna ripeterlo oggi che Francesco si trova strattonato a destra e a sinistra. Bersagliato da contestatori cattolici superficiali e imprudenti che lo rappresentano come modernista eterodosso e stravolto da sostenitori laicisti che lo applaudono attribuendogli idee egualmente eterodosse e quasi atee. Un circo mediatico assurdo.
Come se non bastasse a questi due schieramenti se ne aggiunge un terzo, quelli dei neobergogliani fondamentalisti, che si sentono «superapostoli» di questo Papa e «giudicano» chi, fra i credenti, ha la fede e la grazia, e chi no.
Ma di questi dirò in conclusione. Comincio dal caso più eclatante: quello di Repubblica. Martedì scorso, un editoriale di prima pagina di Ian Buruma, che sembra ignaro di secoli di dottrina cattolica relativa alla «retta coscienza », attribuiva al Papa l’idea che «non è poi necessario che Dio o la Chiesa ci dicano come dobbiamo comportarci. Basta la nostra coscienza».
L’editorialista traeva la conclusione che papa Francesco starebbe così abbattendo il credo cattolico: «nemmeno i protestanti più devoti si spingerebbero tanto lontano. I protestanti si sono limitati ad eliminare i preti in quanto tramite tra l’individuo e il suo creatore. Le parole di papa Francesco lasciano pensare invece che quella di eliminare lo stesso Dio potrebbe rappresentare un’opzione legittima».
Abbiamo letto bene? Dunque, secondo quanto sta scritto sulla prima pagina di Repubblica, papa Francesco vorrebbe insegnare a «eliminare Dio»?
In realtà lo stesso Buruma poi giudica «un po’ sconcertante» tale idea. Per la precisione è una colossale sciocchezza. Che neanche meriterebbe una confutazione.
Siccome però qualche lettore laico di Repubblica o qualche cattolico intransigente potrebbe crederci (e magari partire all’at - tacco del Papa), faccio sommessamente notare che il vero magistero di Francesco insegna esattamente il contrario di quella nozione di coscienza che il giornale scalfariano gli attribuisce.
Proprio l’11 ottobre, quattro giorni prima dell’editoriale di Buruma, ricevendo una delegazione della comunità ebraica di Roma, Francesco ha fatto un discorso importante e solenne in cui ha insistito a chiedere una collaborazione col mondo ebraico sui principi morali, indicandone la base nella «testimonianza alla verità delle dieci parole, il Decalogo».
I Dieci Comandamenti, ha detto il Papa, sono «solido fondamento e sorgente di vita anche per la nostra società», indicandone dunque la validità anche per la vita sociale e politica.
Poi ha sottolineato che del Decalogo, legge consegnata da Dio a Mosè sul Sinai, c’è estremo bisogno perché la società del nostro tempo è «così disorientata da un pluralismo estremo delle scelte e degli orientamenti, e segnata da un relativismo che porta a non avere più punti di riferimento solidi e sicuri».
Francesco ha dunque richiamato il magistero di Benedetto XVI per affermare che nel Decalogo la coscienza trova il suo ancoraggio sicuro, contro il dilagante relativismo.
Con tanti saluti a Repubblica, a Scalfari e a Buruma. Questo è il magistero di papa Francesco. Ed è stato questo fin dall’inizio. Identico peraltro a ciò che insegnava come cardinale arcivescovo di Buenos Aires: un recente articolo di Alessandro Martinetti lo ha dimostrato mettendo a confronto, su alcuni temi scottanti, i suoi testi (del tutto in linea con Ratzinger) con quelli, molto diversi, del cardinal Martini.
Del resto papa Francesco si è proclamato ripetutamente «figlio della Chiesa» e la Chiesa sempre e dovunque ha insegnato la stessa dottrina, fino a Benedetto XVI, passando per il Concilio Vaticano II che nella Gaudium et spesafferma: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire».
Se così non fosse, se non esistesse la Verità oggettiva e se l’uomo potesse decidere soggettivamente cosa è Bene e cosa è Male, tutto diventerebbe arbitrariamente autogiustificabile (anche per soggetti come Priebke, Stalin e Hitler).
S’illude chi spera che papa Francesco possa ribaltare ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e professato. Non ha neanche il potere di farlo.
Molti, a Repubblica, ma anche fra i cattolici, ignorano perfino qual è lo «statuto» del papato: al Papa è consegnato il depositum fidei, la verità rivelata e sempre professata, affinché la custodisca e la difenda. Ma non può assolutamente sovvertirla. Nessun Papa ha tale potere perché nel momento stesso in cui insegnasse una verità diversa decadrebbe e non sarebbe più papa.
Ha scritto Joseph Ratzinger: «Il Papa non è un monarca assoluto la cui volontà abbia valore di legge. Egli è la voce della tradizione e solo a partire da essa si fonda la sua autorità».
Quindi sono totalmente fuori strada sia certi fan laicisti, sia i cattolici intransigenti che lo contestano per lo stesso (assurdo) motivo.
I laicisti con Francesco faranno la fine di quei loro predecessori che acclamavano Pio IX per usarlo politicamente contro l’Austria e indurlo a fare la guerra: appena si accorsero che il Papa non si faceva «usare», lo trasformarono nel loro peggior nemico.
Per questo il grande e saggio don Bosco insegnava ai suoi ragazzi a gridare non «Viva Pio IX», come facevano certi laici, ma «Viva il Papa». E ancora meglio Francesco, in più di una occasione, a chi acclamava il suo nome («Francesco, Francesco»), ha chiesto piuttosto di acclamare «Gesù! Gesù!». Perché il Salvatore è Lui, non il Papa.
Proprio considerando questo desiderio di papa Francesco di mettere al centro Cristo e non se stesso (come ha fatto con grande umiltà Ratzinger), bisogna segnalare che c’è una terza categoria di persone che fraintendono.
Penso, tanto per fare un nome, alla neoeditorialista di Avvenire Stefania Falasca. Conosco Stefania da più di 20 anni, perché era redattrice di 30 Giorni mentre io ne ero direttore.
Quando ho letto il suo editoriale sull’Avvenire di giovedì ho pensato: sia pure involontariamente queste invettive rischiano di danneggiare il Papa più dei suoi critici.
Anzitutto perché – su questo ha ragione Giuliano Ferrara – sotto la «scomunica » falaschiana contro i «rigidi eticisti » cade tutta la linea ruinianawojtyliana- ratzingeriana dello stesso Avvenire fino ad oggi (e magari, se la si capovolge, si dovrebbe dare qualche spiegazione).
Ma soprattutto quei fulmini – contro gli «specialisti del Logos» - rischiano di finire in pieno su pontefici del rango di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e sul loro magistero.
Un «lusso» che nessuno può permettersi. Specialmente se non si ha nemmeno l’attrezzatura culturale per discutere. Non si fa un favore a papa Francesco a lanciare questi anatemi sotto la sua insegna.
Del resto è alquanto paradossale che in nome del cristianesimo della «tenerezza» si scaglino fulmini su dei credenti, pretendendo di giudicare loro, la loro coscienza e la loro fede.
Non che nella Chiesa non esistano effettivamente dei «rigidi eticisti». Ce ne sono, ha ragione su questo la Falasca: hanno pure contestato il cardinal Ruini, la Cei e implicitamente Ratzinger e Wojtyla perché non hanno «scomunicato » la legge 40 sulla procreazione assistita. Ma sono pochissimi e non mettono certo a rischio la Chiesa come i tanti (anche teologi) che vengono a patti con le ideologie del mondo (e contro cui nulla si dice).
Inoltre anche i cosiddetti «rigidi eticisti» (che di solito sono bravi cattolici, persone di grande fede e in certi casi eroici nelle prove della vita) meritano di essere trattati con la «tenerezza di Cristo» e con la paternità che il Papa riserva a tutti.
Francesco è proteso a raggiungere tutti, a riportare tutti a Cristo. E non vuole perdere nessuno. Sarebbe incredibile una Chiesa dove ci fosse posto per tutti fuorché per i cattolici e per chi ama la Chiesa stessa.
Di sicuro non è questo che il Papa vuole. E non è di questo che la Chiesa ha bisogno.
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