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 2013  ottobre 20 Domenica calendario

ASCESA E CADUTA DI UNA BALLERINA


Sono gli occhi a tradirla. È vero che i capelli, «torturati dalle tinture, hanno perduto alla fine ogni parvenza umana e sono diventati secchi e crepitanti come la paglia». Anche il volto, coperto di cerone, è solcato in profondità da rughe, tenaci e amare. Le luci soffuse e la distanza a cui siedono gli spettatori salvano però le apparenze. «Come sembra ancora giovane», pensano in molti. E persino i malevoli devono ammettere che Ida Sconin, la diva meglio pagata del variété parigino, è pur sempre una gran bella donna. Ma lo sguardo, quello non si maschera così facilmente. I suoi occhi non sono «né voluttuosi né viziosi come vorrebbe ancora far credere, ma buoni e profondi, occhi di una donna vecchia, piena d’esperienza».
Ida di Irène Némirovsky ha il ritmo cadenzato di una danse macabre. Tutto il racconto, opulento di emozioni, è racchiuso tra due entrate in scena. Quando si alza il sipario, la ballerina, alla ribalta da quarant’anni, «scende con un casco di rose in testa, tra ragazze nude, e ciascuna ha in mano un ombrello d’oro. Il suo volto è circondato da gocce di vetro, pietre preziose, intarsi di specchio». Inflessibile con se stessa, spietata con gli uomini che per lei perdono la testa, Ida canta e danza come se fosse al debutto, con la rabbia di una immigrata russa che vuole farcela a tutti i costi. Lei ora ce l’ha fatta, eccome, e gli incassi quotidiani sono lì a dimostrarlo. Potrebbe ritirarsi, accettare l’ozio tra gli agi, abbandonarsi ai ricordi. Ecco, i ricordi. Ida danza il suo passato, pesta coi piedi leggeri la povertà umiliante, gli amanti osceni, l’odio delle rivali più giovani. Un giro di ballo, due, tre. E anche i trionfi si riducono in polvere. Nostalgia, disillusione danzano con lei, poiché «sa da un bel pezzo che al termine di una vita umana bisogna accontentarsi di quel mezzo fiasco che si chiama riuscita».
La Némirovsky usa magistralmente la sua arma più crudele, l’eccesso. Aggettivi, ori, specchi, profumi, sentimenti inconfessabili: tutto è eccessivo, come ben si addice al demi-monde impersonato dalla protagonista. Non è forse il destino a imporci il kitsch come una legge universale, forza imperiosa che s’avvinghia ai corpi e non li lascia fino all’ultimo respiro?
Nella galleria delle donne némirovskiane, patetiche e sconfitte, Ida occupa un posto di riguardo. La morte ormai la lambisce, «il suo cuore batte talvolta troppo veloce, talvolta troppo lento e, di tanto in tanto, sembra impuntarsi su un ostacolo invisibile lasciandola ansimante, con le membra ghiacciate e le ginocchia tremanti». La fine giunge con le sembianze di una danzatrice ventenne, dalla «carne pallida e fresca, di un fulgore inalterato». Anche lei balla la vita. È prorompente e invasata di energia, coi denti aguzzi di lupa vorace, impaziente di prendere il posto che le spetta e scacciare finalmente la vecchia imbellettata.
Il senso della favola è, naturalmente, che non c’è alcun senso. Se non la forza vorticosa che ci prende, come ha preso Ida, e ci trascina veloci, sempre più affannati, fino a farci crollare, esausti. E poiché questo è un dramma tutto femminile, che la prossima ballerina venga ornata di perle, di vetri e di rose, e che ci guardi con occhi voluttuosi, ignari di bontà.