Gianni Mura, la Repubblica 20/10/2013, 20 ottobre 2013
SIA LIEVE LA TERRA A METSU CT BIANCO COL CUORE NERO
SIA lieve la terra anche a Rolly Marchi, e se qualcuno trova sbagliato iniziare una rubrica parlando di morti non so che farci. Qualche anno fa, dal Tour, ho scritto che mi piaceva la Francia che ha il cimitero al centro dei paesini, all’ombra della chiesa e di fronte al municipio. Per me questa rubrica è un paesino e mi regolo di conseguenza, anche perché gli ultimi giorni mi obbligano a dare spazio ai morti. Rolly era un omone col raro dono della leggerezza e ha fatto un sacco di cose. Sciato con Zeno Colò e Fellini, arrampicato con Bonatti e Messner, oltre che col suo grande amico Dino Buzzati. E’ stato fotografo, scrittore, anche finalista al Campiello, organizzatore, ideatore di eventi, si direbbe oggi. Una serie di concerti che nell’immediato dopoguerra, a Trento, rivelò Benedetti Michelangeli. Il trofeo Topolino da cui uscirono Thoeni, Gros e Stenmark. Una mostra dei quadri di Buzzati. Da inviato, cominciò alle Olimpiadi invernali del ’36. Era bello sentirlo raccontare.
Bonatti e Messner li ritrovo in un libro appena uscito: “Il fratello che non sapevo di avere”. E’ frutto di un lavoro incrociato, a quattro mani, di Messner e di Sandro Filippini, giornalista molto ferrato in materia, affascinato non solo dalle imprese di Walter ma dall’etica che le ha sempre sorrette, fosse il K2 o la traversata del deserto di Atacama. «Io metto il sogno davanti a tutto. La realtà spesso è il sogno», diceva Bonatti. «Non ho rimpianti perché posso dire che ho vissuto. Quindi mi ritengo fortunato. Ho potuto dare forma a tutte le mie aspettative. Ognuno deve trovare la sua strada sapendo che la vita non ti regala niente: tutto deve essere conquistato», diceva Bonatti. Ci sono molte foto inedite, fornite da Rossana Podestà. C’è la Francia che gli conferisce la Legion d’onore mentre l’Italia non osa discutere le verità di Ardito Desio. Bonatti l’ho conosciuto lavorando a Epoca e ritengo sia stata una fortuna e un regalo. Perché ne ho conosciuti tantissimi che dicevano che mai avrebbero accettato compromessi e pochissimi che non ne accettavano mai, davvero. E Bonatti era uno di questi. Oltre a tutti quelli scritti da Bonatti, è un libro che consiglio (ed. Mondadori, 287 pagine, 24,90 euro).
Se n’è andato anche Bruno Metsu. Come, pare, i salmoni e gli elefanti, è tornato a morire dov’era nato, a Coudekerque- Village, da non confondere con la più estesa Coudekerque- Branche che nello stemma ha un istrice coronato. Village ha un migliaio di abitanti. Metsu era sulla panchina del Senegal, numero 44 nelle classifiche, che batté la Francia campione del mondo nell’apertura dei mondiali a Seul, nel 2002. Di quei mondiali ricordo bene il gol buono annullato a Tommasi, il famoso arbitro Moreno e il Senegal, non certo la brutta finale vinta dal Brasile. Dopo aver battuto la Francia, il Senegal pareggia con Danimarca e Uruguay, elimina la Svezia e perde ai quarti 0-1 con la Turchia al golden gol nel pts. Prima e unica partecipazione finora del Senegal ai mondiali. Nel 2002 il Senegal fu anche secondo alla Coppa d’Africa, miglior risultato in assoluto. Segno che tra Metsu, nato nel freddo del Pas de Calais, e il Senegal era nato qualcosa di particolare. I giocatori erano abituati a sopportare allenatori più rigidi, altro che una bella birretta insieme al mister e le famiglie nei ritiri, roba buona per gli olandesi. «Non avevamo bisogno di un poliziotto, ma di uno come noi», disse Cissé.
Metsu non era un allenatore poliziotto ma un uomo libero. «Sono un bianco dal cuore nero», disse, ricalcando senza saperlo una famosa frase di Pietro Mennea. Diventò uno di loro. Imparò a parlare il wolof, conobbe una ragazza di lì, Vivienne, e la sposò. Si convertì all’Islam e diventò Abdul Kareem. Tre figli: Enzo, Noah e Maeva. Nel 2003 lo aveva contattato vagamente l’Inter, nel 2008 il Marsiglia. Nel 2012 l’Al-Wasl lo aveva chiamato a sostituire Maradona. Un anno fa, sentendosi molto fiacco, si era sottoposto ad esami che avevano riscontrato tre tumori: colon, fegato e polmoni. Gli avevano dato tre mesi di vita. Si faceva forza pensando ad Abidal, che ne era uscito, ma se contro un cancro si può lottare, contro tre si può prolungare ai supplementari il tempo della sconfitta. In febbraio, durante la chemio, una violenta polmonite. «Ero più di là che di qua, chissà cosa mi è successo dentro. So di aver parlato con tutti e sette i nani di Biancaneve, con Martin Luther King e con Otis Redding. Bello. E adesso ho più tempo per la famiglia«. Così diceva in luglio. E la famiglia era in piazza venerdì a Dunkerque, tanti fiori bianchi, i “suoi” Pape Bouba Diop e Beye con gli occhi rossi, e Lamouchi, Boli e Alex Dupont, allenatore del Brest, suo amico dai tempi dei primi calci. Erano andati a trovarlo, senza pubblicità, Eto’o, Drogba, Ayew. Domani a Dakar, dove sarà seppellito, funerali di Stato. «Il mio calcio produce sogni» aveva detto in un’intervista al nostro Currò. Era ricco d’amore e d’avventura, come disse un poeta di un altro. E qualcuno, da qualche parte, continuerà a sognare quei sogni e si ricorderà di Metsu.