Antonio Gnoli, la Repubblica 20/10/2013, 20 ottobre 2013
MINA GREGORI
Vado a trovare Mina Gregori nel bel palazzo Capponi dove vive – non lontano dall’orto botanico di Firenze – in un pomeriggio di pioggia lenta e appiccicosa. Al cellulare, desolata, mi dice che tarderà di un’ora. «Non bastava l’acqua!», penso io. Un pranzo complicato, si scusa lei. Mentre attendo – accolto da un domestico thailandese – gironzolo nel grande appartamento: tra i libri che debordano, i quadri del Seicento alle pareti, la fototeca imponente. Su un tavolo alcune pubblicazioni recenti sul Caravaggio, il suo artista di riferimento. Mi attrae una piccola foto incorniciata: la ritrae ancora giovane. È accanto a un camino, minuta ed elegante. Vagamente in posa. Indossa un abito di Balenciaga. E quando le chiedo cosa le ricorda quella sua immagine, a quale sentimento del tempo la rinvia, risponde: nulla. Ma non è il nulla della dimenticanza, è il nulla semplice delle cose che passano e che non tornano più: «Tutto quello che documentiamo serve a lottare contro questa sensazione di sparizione. È il mio mestiere. Poi c’è la vita. E di questi tempi mi vado sempre più convincendo che non serva poi molto ostinarsi per conservare le proprie tracce. Quella foto è lì, ma potrebbe non esserci. L’avevo perfino dimenticata. Voglio dire che se alla fine ti riduci a pensare molto al passato, cosa ti resta del futuro?».
Per uno storico dell’arte che passa la vita a documentare ciò che è stato non è un po’ strano?
«Lo è, lo è. Ma vede, a me piace il presente. Anche se non capisco che cosa esattamente sia. Ma so di trovarmi qui, in questo preciso momento. E sento di essermi realizzata pienamente in questo luogo che è Firenze. Qui ho insegnato, qui vivo da moltissimo tempo. E ritengo di essere stata una donna fortunata. Ci sono le biblioteche d’arte più importanti al mondo. Uno straordinario Istituto tedesco, non lontano da qui, con mezzo milione almeno di volumi d’arte. Se ci penso, scatta la fascinazione».
Come le è nata la passione per l’arte?
«Un fatto familiare. Mio nonno si occupava del distacco degli affreschi. Era il ramo materno, le cui origini si perdono nel mondo fiammingo, che si stabilì a Cremona. Mia madre, una donna benestante, possedeva un palazzo e sposò mio padre che era un ingegnere. A lei devo la passione per l’antico. Da bambina mi piacevano le cose vecchie. Mi facevo regalare oggetti che altrimenti sarebbero stati buttati: vecchie serrature o cornici dismesse. Da mio padre presi il senso del viaggio e della libertà. Era un antifascista e Cremona negli anni Trenta non era proprio la città ideale per viverci».
Perché?
«C’era Roberto Farinacci, una specie di secondo duce. Ma più fanatico e intransigente dell’altro, quello vero. Da semplice ferroviere creò un proprio studio di avvocati. Sospetto che fu un imbroglio. Ma ci riuscì per la sua influenza nel partito. Quanto a mio padre, era un controllato dalla polizia. Spesso, come ingegnere civile, gli capitava di viaggiare, e quando tornava veniva puntualmente interrogato. La guerra, ovviamente, rese tutto più difficile. Temevamo che i bombardamenti ci avrebbero coinvolti lungo quella parte del Po dove vivevamo. Invece si fermarono sugli Appennini, dove più dura fu la resistenza».
Come visse quegli anni?
«Erano momenti tragici, attenuati in parte dalla vita di provincia. A me si cominciava a porre il problema di cosa avrei fatto nella vita, quali studi avrei intrapreso. Dissi a mio padre che avrei voluto studiare a Firenze. Lui acconsentì. Mi iscrissi alla facoltà di Lettere e iniziai a seguire i corsi di Giuseppe De Robertis. Nelle sue lezioni c’era molto Petrarca e Foscolo e poi Ungaretti, il suo poeta prediletto. Ma io amavo la storia dell’arte e mi dissero che il solo professore che valeva la pena di ascoltare e seguire insegnava a Bologna».
Chi era?
«Roberto Longhi. Mi presentai a lui una mattina, ansiosa e colma di soggezione. Mi scrutò di sottecchi, ironico, e disse: si accomodi pure signorina, ma sappia che l’arte non le risparmierà i dolori».
Cosa intendeva dire?
«Non lo so e neppure glielo chiesi. Per lui l’arte fu un grande romanzo della parola. Mi sono spesso chiesta cosa nascondesse quella sua passione totale. E credo si rivelasse interamente nella lingua con sui seppe darle corpo ed emozione. Fu davvero un grande innovatore ».
Com’erano le sue lezioni?
«Di un’eleganza suprema. Mai pedante».
Non aveva rapporti facili con gli altri grandi storici.
«Con Lionello Venturi si detestavano. C’era poi, proprio a Firenze, la figura dominante di Bernard Berenson. Quella sua e di Longhi erano di due generazioni diverse. A Berenson, poi, non interessava troppo il moderno. Detestava il nuovo, ciò che lui chiamava l’originalità degli incapaci. Mentre per Longhi l’arte moderna serviva a spiegare quella antica. Poi i due cominciarono a frequentarsi e capitava a volte che i Longhi, marito e moglie, andassero a colazione da Berenson».
La moglie di Longhi era Anna Banti.
«Formavano una coppia solida. Lei era una scrittrice intelligente, credo che Artemisia sia stato il suo capolavoro. Ma era anche una donna durissima. Quando iniziai a collaborare con il maestro, lavoravo nella sua villa. E spesso, per i fine settimana, mi accadeva di tornare a Cremona per accudire mio padre e il mio fratello piccolo. Un giorno la Banti mi chiamò e davanti a tutta la servitù mi disse: cara, se tutti i sabati torni a casa ti troverai ben presto disoccupata».
Come reagì?
«Mi sentii umiliata per quel rilievo ingiusto. Ma lei era tranchant. Oltretutto, covava una gelosia, verso gli studenti che si avvicinavano a Longhi, grottesca».
Studentesse, magari?
«Senza distinzione di sesso. Immaginava di dover “proteggere” il marito da chissà quale insidia. Del resto, è significativo, che non abbiano mai voluto avere figli. Ad ogni modo, per quelle strane vicende della vita, quando Longhi morì fu lei a chiamarmi affinché mi occupassi della Fondazione».
In che senso il lavoro di Longhi è stato fondamentale nella storia dell’arte?
«In un’epoca in cui tutti erano dediti al formalismo e alla filologia, pochi guardavano i quadri. Longhi riabilitò la sovranità dell’occhio. Naturalmente occorreva una grande memoria visiva. Che è un dono raro, come avere un talento musicale».
Chi ne era provvisto fu Federico Zeri.
«Non era stato allievo di Longhi, aveva studiato con Pietro Toesca. Arrivò tardi a Longhi, tramite la rivista Paragone, della quale divenne una delle colonne. Zeri fu un uomo brillante e provocatorio, ma non fu mai un grande scrittore. Ricordo che prendeva in giro noi che eravamo più letterati. Era abile e riuscì a stabilire un buon rapporto anche con Berenson».
Lo ha mai conosciuto, intendo Berenson?
«Una sola volta. Gli vidi salire le scale di Palazzo Pitti dove si teneva una mostra. Era ieratico. Viveva nella splendida villa dei Tatti, sulle colline sopra Firenze. In seguito, ma lui era già morto nel 1959, in quel luogo, fui borsista per un paio d’anni. Venivano molti americani a studiare e si stabilì tra noi una piacevole convivialità».
La considerano la più autorevole studiosa di Caravaggio. Cosa le ha dato o le ha tolto questo artista?
«Di solito lavorare sulle leggende è molto rischioso. Ma qualcuno deve pur farlo. A me accadde di “scoprire” in anni giovanili un Caravaggio e questo ha un po’ cambiato la mia vita».
Proprio la parola “vita” entra con qualche decisione nell’arte di Caravaggio.
«Con lui il rapporto arte-vita si rinnova. Era un uomo, come si sa, con molti problemi, dotato di un’irrequietezza straordinariamente moderna. La sua arte fu un po’ anche la sintesi della pittura fiorentina, veneziana e soprattutto lombarda».
«La pittura fiorentina era forma e disegno, la veneziana il colore e quella lombarda la luce che prendeva corpo dalle ricerche sui fiamminghi ».
Trasformò anche il rapporto con il sacro?
«Certamente. I suoi modelli erano figure reali. E questa fu una grande novità».
Non ritiene che il sacro sia definitivamente morto nell’arte odierna?
«Non sarei d’accordo sul “definitivamente”. Anche nelle immagini contemporanee, perfino nelle più dissacranti, si nasconde a volte un senso di mistero che provoca tremore. Siamo abituati a immaginare il sacro come un’affastellata congrega di santi o di madonne col bambino. Ma il moderno e il contemporaneo immaginano tutt’altro. Guernica non ha la stessa sacra autenticità di un dipinto del Seicento?».
Ma il denaro che gira nel mondo dell’arte ha tolto, sostengono i più critici, ogni alibi di autenticità.
«Se è al mercato che pensiamo, dico che c’è sempre stato. Perfino ai tempi di Caravaggio. Lui produceva non solo per la committenza; dava i suoi quadri a dei mercanti perché li vendessero. Insomma, il mercato non va demonizzato. Bisogna sapere però cosa si acquista».
Un problema di attribuzione?
«È chiaro. È necessario sapere chi dice certe cose, come, dove e quando le ha studiate».
Puntualmente ricorrono polemiche su quelle che vengono definite clamorose scoperte che poi si rivelano delle bufale.
«Accade che ci si innamori del proprio oggetto di studio. Un giudizio, per quanto autorevole, è spesso un’opinione. Lo è tanto più se non c’è il riscontro un documento. Sono pochi i quadri davvero sicuri. Poi c’è una costellazione di dipinti che solo il tempo può dire se reggono o no. Infine c’è la zona grigia. Ma non vorrei affliggerla».
Com’è la sua vita fuori dall’arte?
«Mi piace viaggiare. Ma l’arte resta la mia bussola».
Ha detto che da bambina scoprì l’amore per le cose antiche e cominciò a collezionarle. Ha continuato a farlo?
«Nel tempo ho collezionato soprattutto la pittura fiorentina del Seicento. Prima degli anni Settanta era ancora possibile comprare. A scoprire il genere fummo soprattutto io e Piero Bigongiari».
Il poeta?
«Bigongiari fu tante cose, insegnò letteratura italiana all’università. Aveva una grande cultura. Come Mario Luzi proveniva dal gruppo degli ermetici fiorentini. Era un omone simpatico. Invece Luzi mi metteva una certa soggezione. E pensare che venne perfino ad assistere a qualche mia lezione di storia dell’arte».
Si è spesso detto dell’importanza che l’ambiente letterario fiorentino ha avuto per la cultura italiana del ’900. Cosa è rimasto?
«Ben poca roba. Quel mondo si è spento da un pezzo. Non ha più una voce. C’è solo un brusio di fondo. Che è meglio non ascoltare. E sull’oggi non ho pensieri, o almeno non ne ho di particolarmente originali. In fondo quel “dolore” cui alludeva Longhi durante il nostro primo incontro è tutto qui: nell’esserci accorti in ritardo che ogni cosa è cambiata ».
Con quali conseguenze?
«Vista la mia età, ed essendo sola, con scarsissimi effetti».
È stata sposata?
«No, ho avuto solo un grande amore. Finito quello basta. All’età di vent’anni cominciai a dedicarmi a un fratellino che ne aveva sei. È bello sapere che sei importante per qualcuno».
Lo dice con un certo rimpianto.
«La sola cosa che rimpiango è che a causa dei tanti impegni universitari non ho scritto abbastanza. Quando si scrive è il momento in cui vengono le idee».
La creatività è tutto?
«È una parte rilevante della storia umana. Possederla è un dono che io penso arrivi come un suggerimento dall’alto».
Crede in Dio?
«Oh sì. Sono molto religiosa. È una delle consolazioni della mia vita. La mia famiglia non era bigotta, ma religiosa sì».
La fede cos’è?
«Esiste Dio, esiste la natura e noi siamo chiamati per scegliere a chi affidarci».
Come si immagina l’aldilà?
«Non lo so. A volte lo immagino come contemplazione di Dio. Spero sempre di rincontrarvi le persone a me più care. Ogni tanto mi tornano alla mente i dipinti di Beato Angelico. Nessuno più di lui ha saputo dare forma e colore al paradiso».