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 2013  ottobre 20 Domenica calendario

MIMMO CALOPRESTI


«Vivere per me significa andare a caccia del futuro ». Mimmo Calopresti è emozionato e parla piano mentre passiamo di fronte ai cancelli della Fiat Mirafiori per raggiungere il set del nuovo film di cui è produttore. Si gira nell’ex stabilimento di Fiat Engineering, uno dei tanti capannoni industriali dismessi nella periferia sud di Torino, dove il regista de La seconda volta e La parola amore esiste ha scelto di ambientare l’opera prima di Stefano Di Polito, Mirafiori Lunapark. «Qui tutto parla del mio passato, della mia storia — confessa candido — ma in fondo anche del mio futuro ed è per questo che ho scelto di ripartire da questo posto. Voglio ricominciare dai ragazzi che ho coinvolto in questo film e in cui vedo il fuoco che mi bruciava dentro quando volevo spaccare il mondo».
Una stagione della vita che per Calopresti coincide con lo scenario della Torino operaia degli anni ’70 e ’80, quando studia all’università e milita in Lotta Continua. Classe 1955, Mimmo nasce in Calabria, a Polistena, che però presto lascia con tutta la famiglia per seguire il padre che viene assunto a Torino, alla Fiat. Scopre la sua vera passione intorno ai vent’anni, quando abbandona Scienze Politiche per iscriversi a Lettere con indirizzo in Storia e critica del cinema. «Una folgorazione. All’improvviso vedo tutti questi studenti che la mattina vanno al cinema invece di entrare in aula. Una cosa meravigliosa. Potevi andarti a vedere tutta la Nouvelle Vague, tutto il cinema indipendente americano, tutto il neorealismo italiano, e finalmente potevo farlo anch’io. Ogni giorno. Invece di andare a lezione. Poi per qualche motivo ho capito che dentro la Nouvelle Vague soprattutto c’era il cinema che volevo fare. Mi è bastato vedere La signora della porta accanto di Truffaut, e tutto mi è apparso chiaro». Da lì il passaggio al set fu pressoché immediato. «C’era una scena creativa molto interessante in questa città — ricorda — era un momento magico, prolifico. Tra chi faceva cinema, teatro, cultura, c’erano rapporti veri, importanti. Lo dico: ci si voleva bene. Era una città viva, anche grazie alla politica e alle lotte che rendevano la mia vita assolutamente piena, e divertente. Per questo ho un ricordo gioioso di quel periodo. Andavamo davanti alle fabbriche, a Mirafiori, facevamo la contestazione, i cortei. E poi c’era la musica, la new wave, c’erano i Genesis, i Clash che ascoltai in un concerto indimenticabile al Parco Ruffini, gratis. Tutto quello che volevo era a portata di mano. Mi sono fatto trascinare, semplicemente, e a un certo punto mi è venuta voglia di raccontarlo, questo mondo».
Sono gli anni in cui prendono forma i suoi primi lavori, dal video Rock contro il nucleare al corto Luxury, per approdare alla collaborazione con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico per cui realizza A proposito di sbavature (videointervista a Tonino De Bernardi, cineasta visionario e indipendente), premiato nel 1985 in una delle prime edizioni del Cinema Giovani, che oggi si chiama Torino Film Festival. Anni sperimentali, di grande fermento, su cui incombeva la nube minacciosa della lotta armata. «Improvvisamente l’atmosfera in città si fece cupa. Me lo ricordo quel momento, ero in piazza Castello su una Renault 4, pioveva. Mi ferma la polizia e mi fanno spogliare, mi fanno togliere pure gli stivali. Lì ho capito che tutto era cambiato. Era arrivato il terrorismo, come una valanga di fango. Da quell’istante in poi tutto è diventato buio e feroce. L’ho raccontato nel mio film». È La seconda volta, il suo primo lungometraggio presentato al Festival di Cannes nel ’96, quello che gli procura la notorietà internazionale anche grazie ai due interpreti: Nanni Moretti (produttore del film con la Sacher) nei panni del docente universitario ferito alla testa e Valeria Bruni Tedeschi, ex brigatista in semilibertà che incontra per caso la sua vittima molti anni dopo. «Credo di essere riuscito a fare un film importante che mi ha catapultato nel mondo del cinema. Di colpo esistevo anch’io in quel mondo. Lì ho capito che il cinema è sempre una grande occasione di vita». E di futuro. «Certo, con il cinema guardo sempre avanti. Il mio prossimo film si intitolerà
Uno per tutti come il libro di Gaetano Savatteri cui mi ispiro. È una storia a tinte noir che esplora i rapporti più segreti e intimi tra le persone. E poi c’è il progetto di un documentario per la tv su Sócrates, una leggenda del calcio brasiliano ma anche un personaggio scomodo perché politicamente si è sempre schierato a sinistra, al fianco dei più deboli e dei lavoratori». Non è un caso che Calopresti sia affascinato dalla sua storia, lui, tifoso granata ma soprattutto figlio di operai. «Mio padre è emigrato dalla Calabria con mia madre e quattro figli. Nei primi anni a Torino continuava ad arrivare gente a casa nostra con in tasca solo il nostro indirizzo, e noi li ospitavamo, gli davamo da mangiare per uno o due giorni, e poi li aiutavamo a trovare una soffitta libera . L’idea era l’America, andiamo lì perché c’è lavoro. Ma è una cosa molto bella vista da oggi in una fase in cui il lavoro manca, non ci sono aspettative e nessuno si muove. Quella era un’epoca in cui la gente lavorava, si trasferiva, è stato un grande momento di movimento, e le persone in movimento sono sempre interessanti. Il cinema stesso mi interessa perché è movimento».
Calopresti usa non a caso il video, più maneggevole e a basso costo, per la sua indagine sulla città-fabbrica negli anni ’80 e ’90, quando realizza i documentari Alla Fiat era così, Paolo ha un lavoro e Tutto era Fiat. «Sono nato in mezzo alla strada — racconta più tardi a cena, davanti a un bicchiere di vino rosso — per me era difficile immaginare che mi sarei potuto occupare soltanto di cinema. Per fortuna ci ho provato con quello che avevo a disposizione e stando sempre dalla parte di chi si batte per i propri diritti». Molte persone lo hanno accompagnato nel cammino e alcuni incontri sono stati davvero speciali. «Moretti è un genio, tutto quello che fa non l’ha mai fatto nessun altro prima. Anche Valeria è una grande attrice europea. Quando arrivò a Torino per girare La seconda volta parlava con la erre moscia e aveva un atteggiamento da signorina bene francese, ma nel giro di qualche mese si era messa il suo giubbotto proletario e girava per la città come una persona qualunque. Era entrata nella parte». Per tutti i suoi film degli anni Zero, come La parola amore esiste (1998), Preferisco il rumore del mare (1999), La felicità non costa niente (2002) e L’abbuffata (2007), ha sempre scelto i migliori interpreti del nostro cinema e non solo, da Fabrizio Bentivoglio a Silvio Orlando, da Francesca Neri a Gérard Depardieu, privilegiando quasi di più il lato umano che quello attoriale. Una scelta in linea con la sua idea di cinema. «Mi piace raccontare una storia in quella frazione di spazio e di tempo che è il cinema — dice abbassando di nuovo il tono di voce — una parentesi in cui quelle vite diventano il centro del mondo e tu ti annulli come spettatore, perché vivi con loro. E perché il cinema rende eccezionali le persone normali». Lo ha fatto anche in uno dei suoi ultimi documentari, La fabbrica dei tedeschi, nel 2008, sulla tragedia della ThyssenKrupp, nel cui prologo gli attori (fra cui Valeria Golino e Monica Guerritore) impersonano i parenti delle vittime e rievocano gli ultimi momenti di normale quotidianità prima di quel terribile incidente.
Militante della vita, come ama definirsi, Calopresti da tempo abita a Roma dove si è sposato solo qualche anno fa con la giornalista Cristina Cosentino, da cui ha avuto una figlia, Clio, che ora in tenera età comincia a frequentare il set facendo la comparsa. Stavolta ha accompagnato il papà a Torino, vicino alla grande fabbrica raccontata da Calopresti nel libro Io e l’Avvocato. Storia dei nostri padri. «L’ho scritto ripensando all’esperienza di mio padre alla Fiat e all’illusione del posto sicuro che già negli anni ’80 tramonta con l’arrivo dei robot. Quel posto gli operai lo hanno amato e difeso con le unghie per dare un futuro alle proprie famiglie. Per questo nel libro c’è il rapporto tra padri e figli. Quello tra Edoardo e l’Avvocato e tra Mico ed Emilio, figlio di un operaio, che ho descritto attraverso pezzi di storia della mia famiglia. Uno di quei pezzi appartiene a mia madre, che rifiutò la casa Fiat per non farsi ghettizzare. In questi giorni abbiamo girato in un appartamento proprio dentro quei palazzi da cui ti affacci sulla fabbrica. Da lì vedi solo la fabbrica, nient’altro. Ho pensato subito a lei, a mia madre, e alla sua miracolosa intuizione».