Siegmund Ginzberg, la Repubblica 20/10/2013, 20 ottobre 2013
BIMBO SOVIETICUS
Cenerentola fu trascinata dinanzi ai giudici e accusata di tradimento delle classi lavoratrici… Poi fu il turno di Babbo Natale, accusato di calarsi nei comignoli a fini di spionaggio… Le fate erano ciarlatane. Per non parlare di principi e principesse, che il ruolo di oppressore ce l’avevano scritto in fronte. Uno dopo l’altro i personaggi delle vecchie favole vennero condannati all’esilio, perché inadeguati all’infanzia sovietica. Così racconta uno scritto autobiografico sull’infanzia nell’Urss degli anni Venti e Trenta, il resoconto di una rappresentazione scritta, diretta e rappresentata da un gruppo di Giovani Pionieri.
Come andò a finire la favola? Lo sappiamo: male. Ma ora una nuova raccolta di illustrazioni (Inside The Rainbow. Russian children’s literature 1920-35: beautiful books, terrible times, in Italia per Corraini) sembra suggerire che poteva forse andare anche diversamente, che ci fu almeno un momento in cui prometteva bene per i bambini e la fantasia. Scorrere queste figure evoca un’epoca magica, e sinora poco conosciuta, nella quale un gruppo di autori e disegnatori riuscì a inventare modi nuovi per raccontare favole nuove che conservavano tutto lo charme di quelle vecchie. Anche se al posto di draghi, principesse e cavalieri ritraevano macchinario industriale e piroscafi, minatori e postini, lampadine elettriche e locomotive, insomma tutta la modernità sognata da un’Urss a pezzi. Erano davvero «tempi terribili». Ma la sorpresa è che in quel marasma ci fosse anche chi riusciva a produrre «libri per l’infanzia bellissimi», di un’eleganza mozzafiato. A lungo questo tesoro era rimasto sepolto, i libri finiti al macero o banditi sino a ben dopo la destalinizzazione. Da qualche tempo invece tornano a meravigliare. Soprattutto grazie a una collezione (migliaia di volumi e disegni, quasi tutti altrimenti introvabili) messa insieme nel corso dei decenni da un emigrato russo a New York, Alexander Lurye, detto Sasha.
Si resta sbalorditi sfogliando favole così belle. Storie a fini edificanti, ma anche di pura e delicata fantasia. Storie di guerra e d’eroismo, ma anche sul lavoro e sugli oggetti quotidiani. E persino su un argomento davvero impossibile come il Primo Piano Quinquennale (riuscite a immaginare un libro per bambini sull’Imu?). Alcuni degli autori (Majakovskij in testa) e degli illustratori sono famosi. Altri, una scoperta. In comune hanno il fatto che riuscirono a trovare, nel rivolgersi all’infanzia, una libertà di espressione che non avrebbero mai potuto sognare nel rivolgersi agli adulti. Durò abbastanza poco, giusto quel quindicennio menzionato nel titolo, e fecero quasi tutti una brutta fine, a cominciare da colui che li aveva incoraggiati, il commissario alla cultura Lunacharsky.
I vecchi Bolscevichi ce l’avevano con le vecchie favole. «Che se ne fanno dei racconti di fate i bimbi proletari?», si chiedeva la Pravda nel 1925. «Servono solo alla borghesia, per sostenere lo sfruttamento… in modo che bambini che hanno freddo e fame possano rifugiarsi nel mondo della fantasia e provare felicità immaginaria». E in effetti, con la guerra civile e la collettivizzazione forzata che avevano creato milioni di biezpizorniki, bambini abbandonati, un’intera generazione finì col frequentare solo orchi e orfanotrofi. E più tardi, con le nuove leggi che istituivano la punizione criminale a partire dalla tenera età, finirono con l’affollare anche gli orfanotrofi per figli di nemici del popolo e il Gulag. In pratica un bambino sovietico su tre fu privato dell’infanzia. Alle meraviglie non si avvicinarono neanche. Tutti gli altri vennero scoraggiati dal correre dietro a scempiaggini e puro entertainment. In compenso, da un certo punto in poi si raccontava un’unica favola. Sempre la stessa: su come dovessero ringraziare papà Stalin per aver regalato ai bambini sovietici l’infanzia più felice che si potesse immaginare al mondo. La Krupskaya, la vedova di Lenin, ce l’aveva con la «sciocchezza» di far parlare gli animali nelle favole. Persino un intellettuale raffinato come Viktor Šklovskij se la prese in quegli anni, salvo poi vergognarsene in seguito, con chi affollava la letteratura sovietica per l’infanzia di «ippopotami e giraffe», nonché di «coccodrilli », come quello di Chukosvsky, che avevano forse il difetto di evocare i tiranni del presente quanto quelli del passato. Ma poi si fece anche peggio: l’eroe indicato al bambino sovietico divenne Pavlik Morozov, il bambino che da buon comunista aveva denunciato padre e madre.
La cosa che fa una certa impressione ricordare è che negli stessi anni in America Walt Disney inventava Topolino e Paperino, e filmava Biancaneve e Cenerentola. Avrà avuto i suoi difetti, sarà stato un fottuto reazionario, avrà avuto secondi fini quanto vi pare, ma le fiabe le sapeva raccontare. Lo capì persino uno dei più egregi narratori sullo schermo della favola staliniana, Sergei Eisenstejin. L’autore di Ivan il Terribile aveva scritto nel 1941, anno assolutamente non sospetto, un panegirico della potenza liberatoria del modo di narrare le favole di Disney. Ma i film di Disney in Russia arrivarono solo con la Perestrojka. Ora sappiamo che mezzo secolo prima anche la Russia sovietica aveva geni di quel calibro. Semplicemente aveva buttato via un’occasione favolosa.